Milano
La Milano di chi non ha casa, nell’epoca dello #stateacasa
(testo di Federica Verona, fotografie di Filippo Romano)
“Questo Coronavirus è una brutta cosa, io so che se dovessi prenderlo e stare male, sceglierebbero chi sta meglio di me, chi può portare avanti questa società, chi è giovane e prestante: gli avvocati, i commercialisti, quelli che faranno carriera potrebbero entrare in ospedale, io no. Fa male, ma è proprio così, io in fondo sono uno tra gli ultimi, anche perché non sono più giovane”. Attila è un signore ungherese che abita in un’Ape car 50 a tre ruote. Dorme seduto sul sedile dell’abitacolo, davanti al manubrio, da più di sette anni. All’interno una lucina gli illumina le notti, vari ganci servono per appendere oggetti utili alla sua esistenza, ogni spazio è pensato al millimetro per non essere sprecato. Oggetti e cose ovunque, dentro e fuori. Nel carro chiuso ci sono le bombole per ricaricare il fornelletto da campeggio, le coperte, i vestiti, le provviste. Fuori, una bicicletta legata con una cassa capovolta, che serve anche da tavolino. Per chi la sera gli porta il the, quella cassa capovolta, è un buon appoggio per mettere il termos. Lui estrae la sua borraccia e se la fa riempire tutta, gli terrà compagnia durante la notte mentre “naviga”. Attila naviga cercando ossessivamente notizie in rete, visitando siti, profili, studiando persone, accadimenti, progetti scientifici che poi gli piace raccontare a chi lo incontra.
Nei giorni del lock down per il Covid, la vit degli homeless è perfino più complicata del solito. Molte mense sono chiuse e il cibo viene distribuito in strada, sono chiuse le docce, i centri diurni. A Milano si può stare nei dormitori pubblici più a lungo, rimangono aperti tutto il giorno ma per entrarci serve passare attraverso i servizi sociali e non tutti ci riescono. E poi non sempre c’è la voglia di convivere con altri o di sottostare alle regole imposte. Spesso se si è coppia non ci sono molte alternative poi.
C’è chi ha un piccolo reddito, magari una pensione di invalidità, la pensione sociale oppure usufruisce del reddito di cittadinanza e se prima stava in albergo, ora che gli alberghi sono chiusi, ha come unica alternativa la strada. La polizia passa, li ferma, chiede i documenti. Chi ce li ha li esibisce, ma molti ne sono privi, perché scaduti o persi. L’invito è sempre quello di non stare in strada, di andare da qualche parte. Così qualcuno si fa ospitare, magari i più giovani che consegnano cibo a domicilio hanno amici che gli offrono un angolo di pavimento; qualcun altro sale sui mezzi pubblici vuoti e gira: per non stare fermo e per non essere fermato.
Bocciofile diventate base di accampamenti, mezzanini delle stazioni dei treni, ingressi chiusi dei passanti, angoli, marciapiedi, portici, panchine sono spazi scelti con attenzione, spesso sistemati con un’ordine maniacale: una valigia o uno zaino contenente tutte le proprie cose sotto alla testa, il sacco a pelo ad avvolgere il corpo, una coperta piegata a fare da base. Qualcuno ha con sé dei libri, il cibo, lasciato dai volontari delle Associazioni, come Fondazione Arca, Croce Rossa e SOS Milano, che a turno passano, tutto quel che si possiede è ben sistemato vicino al proprio corpo. C’è chi ha una tenda, i più fortunati una macchina. Chi abita nel dehor di un bar, ora eccezionalmente libero anche durante il giorno e, quindi, totalmente a disposizione. C’è chi un lavoro ce l’ha perché guida il muletto o fa il muratore e fino a un mese fa si alzava, andava alla fontana si lavava e poi andava a piedi a prendere il treno fuori Milano per costruire le case della middle class di provincia, poi la sera di nuovo in treno e una volta a Milano via alla mensa, poi sorseggiando un po’ di Tavernello, la lettura dei giornali della mattina, due chiacchiere con gli amici o i volontari delle associazioni e poi a dormire. Ma ora quella prospettiva lavorativa, quella minima prospettiva lavorativa, pagata in nero, non c’è più, così la tristezza si acuisce, la solitudine diventa più dolorosa. Così ci si attacca ancora di più ai propri oggetti, alla propria casa tenendo tutto ben protetto per evitare che qualcuno passi e rubi anche quelle poche cose che si possiedono rischiando di averne ancora meno. Dove ci sono gli assembramenti può essere più difficile tenere protette le proprie cose, possono esserci tensioni, litigi, soprattutto se si deve condividere lo spazio con chi è capo branco e magari più aggressivo. In questo momento è così difficile reperire cibo e vestiti puliti ci sono situazioni complesse, dove stare lucidi dopo un po’ diventa emotivamente insostenibile e l’alcol è l’unico modo per non ricordarsi come si sta. “Una notte è morto uno, qui vicino, forse già stava male ma faceva dei versi la notte che tenevano svegli tutti, ho sentito più di una volta alzarsi qualcuno e riempirlo di botte, alla mattina, quando lo hanno trovato, quei versi non li faceva più”.
Ci sono per anche dinamiche di collaborazione tra gruppi, in strada si diventa anche amici. Poco prima che ci si chiudesse tutti in casa, Amsa ha fatto pulizia nelle strade, più di uno racconta che il proprio accampamento fatto di teli, ombrelloni, coperte, cassette e oggetti, è stato distrutto. Così gli amici si sono fatti più stretti e hanno ospitato chi è rimasto nudo.
In generale l’immagine del clochard per scelta è un’immagine molto stereotipata e imprecisa, ci sono spesso storie di dipendenze per il gioco, divorzi che soprattutto gli uomini non riescono a reggere, lavori instabili che non garantiscono la cifra adatta ad assicurare una caparra e tanto meno un affitto con i prezzi di Milano, fallimenti del proprio processo migratorio. Poi certo, ci sono i casi cronici, dove l’alcolismo è diventato un buco nero da cui è impossibile ormai uscire. Le donne sono sempre una piccola minoranza e se ci sono, spesso, sono in coppia. Difficile proteggersi da sole in strada. Tutti, ovunque, mantengono in modo rigoroso la regola del distanziamento personale.
In questi giorni, in una Milano deserta, è il centro però a fare particolarmente impressione. In un silenzio totale, in mezzo al senso di vuoto che si percepisce attraversando Piazza Duomo, la Galleria Vittorio Emanuele, Piazza San Babila, e le zone limitrofe, sotto un sole ancora tiepido di giorno e durante la notte fresca, non si muove una foglia. Tra le vetrine con i manichini vestiti a primavera dei negozi vuoti, i riders che sfrecciano con la musica ad alto volume, l’esercìto e i carabinieri che controllano gli accessi e gli elicotteri che ogni tanto sorvolano l’area, gli unici esseri umani presenti sono loro, gli homeless. Li trovi esattamente com’erano quando il Duomo era pieno di gente, tranne che il bicchiere per l’elemosina qualcuno non lo mette neanche più. Vincenzo, seduto davanti ad una colonna della libreria Hoepli, con il suo secchio e la sua scopa con cui ripulisce tutto il marciapiede ogni giorno, ci racconta che non esiste il Coronavirus, è un’invenzione. Lui lo sa perché glielo ha detto un suo amico che ha sentito l’intervento di un medico molto importante in tv.
La sua giornata passa lenta, la mattina va a fare la spesa al supermercato e prende il cibo caldo: le lasagne, gli gnocchi alla romana, le verdure che mangia con gusto, tanto alla sera non cena perché ha deciso qualche anno fa che doveva dimagrire e ora deve stringere tantissimo la cintura dei pantaloni, che altrimenti gli cadono giù. Ha una pensione e, poco prima del Covid, “la sua assistente sociale ”gli aveva trovato una casa“ ma con tutto questo casino chissà cosa succederà”. Vincenzo racconta che con certa gente che vive in strada, lui, non ci parla. Dice che è brutta gente, che beve, che sporca e che ha mandato al diavolo la vita. Lui no, ci tiene ad essere gentile, a mantenere buoni rapporti con tutti, tanto che gli lasciano usare il bagno del garage lì vicino, così può essere pulito.
Sta in strada da molti anni, da quando ha avuto l’incidente al piede, si è trovato fuori casa, è salito sulla 74 ed è arrivato a Linate, dove ci è rimasto per 5 anni. Anche fare solo due chiacchiere con qualcuno gli cambia l’umore. Poco distante da lui un tizio, grazie alle prese del bar chiuso, ricarica il cellulare, insieme a lui un grosso cane che ringhia e abbaia “Odia gli esseri umani, credo ne abbia prese tante da cucciolo”.
Sotto ai portici di Corso Vittorio Emanuele Salvatore, un siciliano con gli occhi tristi che di solito fa dei braccialetti intrecciando fili e li vende per poche monete, ma se non c’è nessuno inutile mettersi a farli. Sta appoggiato alla sua valigia seduto sul suo sgabello per tutto il giorno: ha un problema alle gambe sottovalutato per troppi anni, per paura di perdere il lavoro, e ad un certo punto esploso. Per questo non ha più potuto lavorare, per questo è rimasto in strada, ma forse anche per altro che non vuole raccontare perché fa troppo male. Un amico che trascina una valigia con le ruote con sopra disegnata Valentina di Crepax, lo viene a salutare ma ripasserà più tardi. Lui, in silenzio, si guarda intorno e si passa la mano stanca e gonfia, sulla fronte, si liscia la barba bianca ma più gialla vicino alle labbra per le troppe sigarette fumate, e dice “che situazione, mai avrei pensato che succedesse una cosa così”. Per fortuna ci sono le associazioni che gli portano da mangiare e per fortuna il freddo è finito perché altrimenti sarebbe stato davvero ancora più difficile da reggere tutto questo. Poco più in là, sempre sotto i portici, un accampamento di più persone che non fanno avvicinare. Sono nervosi, in questi giorni è difficile fare le collette e quindi anche comperare da bere, così la tensione sale. Molti di loro sono accompagnati dai cani, si capisce che sono legami forti, un modo per sentirsi meno soli e poi, gli animali ti amano incondizionatamente, ti stanno vicino, non ti abbandonano: “sono meglio degli esseri umani!”. Sulle pareti un’annuncio appeso con la foto proprio di un cane “Simba, rapito in Corso Vittorio Emanuele da un signore distinto di 60 anni”.
Un’ultimo giro, verso via Torino e tra le 5Vie, dove qualcuno scende di casa e corre attorno al suo lussuoso isolato deserto, spunta Giovanni. All’inizio parla pianissimo, dice una parola alla volta, ma poi si scioglie, dice subito che lui il Coronavirus non ce l’ha, che la Madonna gli ha detto che ci guarirà tutti. Per questo anche lui prega continuamente. In un flusso di parole ci racconta di aver vissuto sui Navigli con il padre che poi è morto, di aver sposato una ragazza sbagliata di Madrid ma lei lo ha lasciato tornandosene in Spagna dove lui l’ha raggiunta per ottenere il divorzio, per fortuna ha trovato un avvocato buono che non gli ha fatto pagare niente. A Madrid stava in una specie di dormitorio bellissimo “mica come quelli che ci sono a Milano”, lì c’erano delle camere al massimo da due, c’era la zona fumatori, era una specie di albergo ma per poveri.
A Milano ha smesso di frequentare i dormitori perché non si trova bene e troppa gente insulta la Madonna e lui non vuole sentire queste cose. Racconta del suo passato come cameriere sulle navi da crociera e di aver girato il mondo, ad un certo punto ha vissuto anche a Los Angeles, stava con una tedesca americana, faceva il saldatore per Getty e guadagnava anche 3000 dollari al mese, si era addirittura comprato una Cadillac! Ha le mani pulite, un berretto in testa e una bella giacca spina di pesce sopra il maglione che gli stringe il collo con una zip. Esibisce fiero una collana con un ciondolo con l’immagine di Papa Francesco. Quel viso inizialmente serio diventa dolce nel momento in cui recita due preghiere alzando le mani a palmo in su verso il cielo. Le preghiere le recitiamo anche noi con lui, alla fine ci sorride ci rassicura e ci dice che guariremo tutti, anche se appunto lui, il Coronavirus, non ce l’ha perché girare il mondo, ti mantiene forte.
Così, in questi giorni nei quali tutti siamo preoccupati per la nostra salute e magari ci prodighiamo in iniziative solidali e di vicinato, sempre di più dovremo fare i conti con il destino di chi perderà il lavoro o perderà la casa nei prossimi mesi. Forse sarà più facile ricordare che la povertà non è una colpa. Forse potremo continuare con l’impegno alla solidarietà, a riempire le ceste sospese, anche quando saremo liberi di uscire, e fermarci a fare quattro chiacchiere con chi è seduto sui nostri marciapiedi.
Quando le città sono piene di vita, spesso non ci accorgiamo che ci sono persone che su quei marciapiedi che calchiamo in fretta vivono. Quelle persone sono parti silenziose di un mondo veloce che non le guarda mai. Inventiamoci una città capace di accogliere anche in strada: in fondo basterebbero più prese per caricare i telefonini, più bagni o servizi igienici funzionanti, più luoghi in cui sistemarsi al sicuro per dormire, dei piccoli armadi dove poter lasciare le proprie cose senza l’ansia che vengano rubate. Ma anche degli spazi liberi dove poter prendere un libro, una coperta, un oggetto necessario.
Nella città del futuro, dopo questa durissima esperienza che ci ha resi “tutti uguali” solo nella retorica di chi la diseguaglianza non la subisce, avremo tutti fatto un po’ di esperienza nuova dell’assenza e della rinuncia. Ci piace pensare che una volta che potremo uscire di casa, potremo essere anche più sensibili e vicini a chi la rinuncia ce l’ha chiara in testa, e sul suo corpo, da un pezzo.
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