Cibo

La metà che rimane. Pasta e fagioli

30 Novembre 2019

“Lunedì l’altro mi ha chiamato Luigi, il suo caporedattore di ottantasei anni con il quale, che io sappia, ha continuato a sentirsi ogni giorno, e me lo ha detto nella maniera più diretta. “Barbara, Mario è morto”, ha cominciato proprio così, “è morto all’improvviso e senza soffrire. Lo avevo sentito quella stessa mattina e stava bene, ieri sera poi l’hanno trovato, era sul divano. Aspettava gente a cena e non rispondeva al citofono. Deve essere successo in qualche momento della giornata, penso nel pomeriggio, visto aveva già fatto la spesa”. Magra, la pelle diafana e lo sguardo serio, Barbara raccontava piano, scegliendo le parole e seguendo ogni movimento delle mie mani che preparavano in cucina, mentre lei appoggiata al frigo un po’ parlava, un po’ prendeva appunti sul foglio stampato della mia ricetta, un po’ fumava. “Erano undici anni che non ci sentivamo”, ha detto, “Io e Mario non abbiamo avuto quasi nessun contatto dal giorno in cui ci siamo lasciati. Salvo una scopata un sabato pomeriggio, a due mesi da quel giorno, uno scambio di tre WhatsApp sei anni fa e l’incontro casuale davanti alla libreria americana lo scorso due gennaio”. “Beh! Sì, mi aveva mandato un messaggio qualche ora dopo quell’ultimo episodio, dicendomi che nonostante quello che gli avevo fatto, non aveva resistito all’impulso di farmi una carezza salutandomi”. “Vaffanculo!” Avevo pensato. “Cosa ti avrei fatto, se non illuminare i tuoi anni immobili? E lasciarti sarebbe stata la colpa?” Ero stata quasi allegra per essere uscita emotivamente indenne da quell’incontro casuale di inizio anno”.

Per me questa Barbara in piedi nella mia cucina a confessarsi, era solo una remota conoscente, un ultimo residuo della Giardiniera Zoppa, la quale dopo essere completamente guarita, era scomparsa nuovamente e per sempre; indefinita ed eterea come quando era arrivata. Un materiale umano incerto e capace di pervasione, ma troppo liquido per poterci costruire qualcosa. Oltre alla mia immaginazione tradita, di lei di tangibile è rimasto poco e di questo poco non so cosa potrà persistere, una volta passato questo straniaménto doloroso che mi assedia da che lei non c’è più. Ci sono episodi che me la riportano, come per esempio Barbara, in realtà un’amica sua, che l’altro ieri però, essendosi ricordata che cucino, ha chiamato me e mi ha chiesto una pasta e fagioli, con la possibilità di assistere e prendere appunti guardandomi mentre l’avrei preparata. “Però ho urgenza”, aveva detto, “e mandami prima una mail con la ricetta e il procedimento.” Non aveva chiarito subito il perché, né io trovavo la richiesta più strana di tante altre che mi fanno amici, conoscenti e ospiti del Paladar Marconi. Per cui le avevo scritto, inviato e mi ero accordato per oggi senza approfondire. Nella mail le dicevo,

Cara Barbara, la pasta e fagioli in Italia è come l’idea di progresso del Paese: ognuno ha la sua ricetta e quelle degli altri sono tutte sbagliate. Io ti do la mia e te la do per sei persone perché la pasta e fagioli non si cucina per meno di quattro e se avanza, si mangia anche due giorni dopo. Anche fredda.

Ingredienti (per sei persone). Una costa di sedano, una cipolla grande, uno spicchio di aglio con la buccia (schiacciato), una poupée di rosmarino (abbonda), un cucchiaio di concentrato di pomodoro (facoltativo), un peperoncino, olio evo, sale e pepe. Per i fagioli io uso quelli bio, tempi e quantità sono questi: 300 g cannellini secchi e 300 g borlotti di secchi (o meglio fagioli rossi). In ammollo per 3 ore, cotti separatamente per 10 minuti in pentola a pressione (non buttare l’acqua di cottura). Nulla impedisce di usare i fagioli in scatola o varietà diverse o una varietà unica. La quantità per me è circa 100 g a persona. Per la pasta invece è indispensabile una pasta che tiene bene la cottura, quindi: 400g di pasta mista (io la ottengo anche mettendo insieme gli avanzi dei pacchetti che cuociono più o meno nello stesso tempo), oppure 400g di maltagliati o anche di tubetti grandi (mezze maniche piccole?).

Procedimento. Soffriggi a fuoco dolcissimo sedano e cipolla tagliati fini e anche lo spicchio d’aglio schiacciato. Quando la cipolla e il sedano saranno trasparenti, togli l’aglio, aggiungi il peperoncino sbriciolato e il cucchiaio di concentrato di pomodoro, in precedenza sciolto in mezzo bicchiere di acqua tiepida (ricordati che il concentrato è facoltativo, per cui se c’è il solito rompicoglioni allergico ai pomodori, omettilo). Dopo una decina di minuti aggiungi i cannellini, metà dei borlotti e il rosmarino. Copri abbondantemente con l’acqua di cottura dei fagioli. Fai cuocere cinque minuti a fuoco vivace, quindi aggiungi la pasta. L’acqua, sempre quella di cottura, dovrà essere tenuta calda e aggiunta secondo necessità perché la pasta e fagioli che cuoce dovrà essere coperta da un velo d’acqua, non navigarci dentro, quando verrà assorbita, dovrà essere aggiunta. Mescola con delicatezza, e tieni il fuoco medio-basso: l’acqua misurata rischia di far attaccare il fondo. Il risultato a cui devi puntare è una pasta e fagioli solida, che se ci metti il cucchiaio dentro, questi non si inclina. Una volta superato decisamente la metà del tempo di cottura della pasta, verifica che ci sia il velo d’acqua e che tutto sia un minimo brodoso. Poi spegni il fuoco, manteca con un filo d’olio e copri la pentola. Dopo quindici minuti, togli il rosmarino, e servi nella pentola o in zuppiera. Gli ospiti faranno da sè e di solito ti stupiscono. Chi vuole aggiunge il pepe, ma io suggerisco sempre di assaggiare prima di aggiungere qualsiasi cosa.

Allora ci vediamo presto e te la faccio vedere live. Vieni sola? Ciao, Gerineldo

Io cucinavo e continuavo ad ascoltarla mentre la sentivo cercare faticosamente le frasi più adeguate, da combinare coi modi più controllati; era insolita, la sua lentezza e la quasi completa assenza di interruzioni da parte mia, rendevano la situazione irreale, letteraria. “Lasciare Mario è stato un viaggio, un’esplorazione dell’esistenza di quelle che puoi fare solo da grande. Cosa che ero diventata grazie agli anni passati insieme a lui. Ma questo l’avrei scoperto poi.” Così aveva cominciato un discorso che chiaramente stava provando a organizzare per esorcizzare, con la logica dell’esposizione fine, la paura di essere fraintesa; banalizzata nel ruolo di semplice vittima di un dolore. C’era di più e voleva dirmelo, mentre io disponevo in anticipo attrezzi e ingredienti che servivano alla pasta e fagioli, per evitare di interromperla, facendola spostare continuamente per accedere a cassetti e scaffali.

“Dopo un’infanzia senza senso, affogata nell’inutile ordinarietà in cui si sono sprecati i miei genitori, mi ero smarrita in una giovinezza di provincia, ma di quelle senza schema, quindi senza destino. Poi a quasi trent’anni, dopo che mi ero già trasferita qui in città, è arrivato lui: prossimo, accessibile, apparentemente diverso, ma nella sostanza troppo vicino a tutto quello che conoscevo intimamente per non sentirlo subito mio. Una specie di Bright Side of the Moon: le mie origini senza lo squallore; io senza l’incapacità di orientarmi; tutto ciò che trovo giusto, normale reso possibile e realizzato. “Dunque è questo vivere?” avevo pensato nei nostri primi anni facili. Senza che lo sapessi è così che Mario mi ha dato la misura del mondo. Benché io l’abbia prima assorbita e poi odiata e rifiutata, la sua maniera di trasformare tutte le cose in vita quotidiana, è diventata il mio metro della vita. Non quello con cui faccio le cose oggi, ma quello con cui pensandole in silenzio, le osservo e le giudico; con cui le confronto per farmi un’idea di come potrebbero essere in un’altra ipotesi. In una versione più giusta. Anche se a un certo punto ho rifiutato il quadrilatero troppo compiuto e povero della felicità che lui voleva fosse anche il mio. Uno stato per me inimmaginabile e che per Mario coincideva con la serenità e poco altro, tra cui – e qui ha sorriso – la maledetta pasta e fagioli dodici mesi all’anno e quelle infinite compilation che ascoltava preparandola. Ma a me che pure ho avuto molto meno, in ogni giorno dopo di lui e senza di lui, questa variazione sul tema della minima felicità socialista garantita da Litro, Pollo, Donna e Cinema, allora non bastava. E così l’ho lasciato. E’ contro di lui che l’ho lasciato, non per me o in favore mio, o di una mia idea della vita. Io un’alternativa migliore a tutto quello, non l’ho mai saputa”.

A questo punto, approfittando di un paio di tiri dalla sua sesta Marlboro, ho detto una delle mie poche cose. Volutamente in argomento con il nostro essere lì, ma fuori tema rispetto al suo racconto, “scusa se ti interrompo con una cosa semplice, ma mi hai chiesto di imparare a farla”, ho detto, “ti volevo solo dire che ogni ricetta sulla pasta e fagioli dovrebbe partire dal fagiolo già cotto. Perché ogni teoria generale su tempi di ammollo e di cottura è imprecisa. Bisognerebbe usare sempre un certo tipo di fagioli e poi regolarsi. Quelli biologici per esempio chiedono meno tempo di ammollo e cuociono prima, ma non so il perché.” Lei mi ha ascoltato e poi si è segnata due righe sul foglio della ricetta prima di riprendere il suo discorso senza commentare il mio.

“Qualche settimana dopo la separazione è passato l’immediato senso di liberazione, la forza che mi dava quella bella libertà di riavere di nuovo la vita intera per me, con tutte le possibilità riaperte e ampliate dalla donna che ero diventata grazie agli anni insieme, ed è arrivata, non inattesa, la disperazione improvvisa. Ma è passata anche quella. La disperazione per non sapere cosa farmene di tutta quella libertà che non potevo più riannodare a nessun capo. Disperazione per la vergogna di guardare negli occhi gli amici, i colleghi, i vicini di casa e dire loro che noi non c’eravamo più. Ma è passata anche l’angoscia di ripiombare nella mancanza di destino della mia gioventù. E’ poi passato lo smarrimento di fronte al tempo da ricostruire, ai giorni prima scanditi da riti che mi definivano e ora da riscrivere; è passato lo strazio delle cose da portare via e riordinare in una nuova casa provvisoria. Passato tutto questo erano passati tre anni ed è rimasto un filo di dolore che non mi ha mai lasciato più. Un zona sottile e lunga di ipersensibilità che mi attraversava e accompagnava come un’emicrania latente nell’anima, con cui ho convissuto come si fa con certi mal di testa alcolici che ti accompagnano per tutta la giornata dal risveglio; che si sentono o non si sentono a seconda della posizione della testa sul cuscino. E allora ti muovi cautamente, per non sbagliare, per non sentirlo o riaccenderlo. Ho cominciato così la mia vita dopo di lui, scoprendo che la sua assenza non mi aveva solo restituito qualcosa, ma portato via un pezzo, che undici anni fa non avevo più voluto, ma sulla cui presenza, senza che io lo sapessi prima, il mio essere faceva affidamento per funzionare e con la cui assenza da allora in poi avrei dovuto fare i conti”.

A questo punto è prevalsa l’intensità della commozione di Barbara, le parole si sono arrestate, lo sguardo era rivolto a me come per chiedere qualcosa, mentre gli occhi si riempivano di lacrime. “Dall’altro lunedì, con la notizia della sua morte, quel filo di dolore ha ripreso a pulsare deciso e forte. E’ come se niente fosse passato. E’ come se dovessi reinventare il mondo un’altra volta, la prima quando ci siamo lasciati, la seconda ora che lui non c’è più davvero e con lui la misura delle cose che la sua esistenza in vita, a quanto pare, continuava a darmi. Non ci sarei mai tornata insieme, ma a volte in questi anni, soprattutto la sera, soprattutto col caldo, girando per la città dopo le mie serate insensate, tornando in motorino passavo davanti alla casa che era stata nostra, e mi fermavo a fumare una sigaretta. Ero lì come per rivedere il posto dove qualcosa di importante è andato storto, come per controllare che lì ci fosse ancora la possibilità, il giorno che lo avessi voluto, di rimettere in ordine il qualcosa che avrebbe sistemato anche tutto il resto. Ma ora lui non c’è più e io ne avrei tanto bisogno ancora”.

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