Milano
La città, come in un film
Siamo in auto. Al volante la Vale. Ha una guida morbida, da autista di autobus, io guido più disinvolto, e lei è sempre lì a dire la sua. Ci siamo capiti. Io se non guido mi faccio i miei, e così evitiamo battibecchi. So che non è una formula di coppia rara. Anzi.
Imbrunire, traffico, Rozzano, appena usciti dall’Humanitas, fermi davanti alle strisce pedonali. Una moto, la vediamo arrivare nell’altra corsia, in direzione contraria, va di brutto, si divincola tra le auto, quindi improvvisamente cade, e con la carena che scivola sull’asfalto, sfiora, forse colpisce appena con il casco, una donna sulle strisce, che crolla di netto, poi moto e pilota proseguono compatti sull’asfalto e vengono a sbattere sotto la nostra portiera, parte guidatore. Noi assistiamo a tutta la scena, come fosse un videogioco. Increduli. Spaventati. Avrà la testa sotto la nostra macchina? Un pensiero lampo, lo stesso, di entrambi. Invece il tizio compare dopo qualche secondo, la sua morto lasciata più avanti accasciata al marciapiede, si precipita sulla donna a terra. Noi usciamo dalla macchina, sollevati, dal vederlo vivo e dinamico. Anche se ha uno squarcio sui jeans, e una gobba sul fianco, che chissà. Ma adesso è la donna, forse 50anni, dell’est, che urla di dolore, aiuto, la mia gamba, chiamate mia figlia! Faccio il 118. Il traffico è bloccato. Le luci delle auto creano la scena iniziale di un poliziesco. La voce dell’emergenza è piatta, io agitato, provo ad agitarla spiegandogli il dove e cosa, e quando lui fa troppe domande, certo, giuste, ma per me, in quel momento troppe, dico Davanti all’Esselunga di Rozzano, poi avvicino il cellulare alle urla della vittima e tanto basta, perché il tizio mi dica che l’ambulanza parte immediatamente. Lo comunico alla donna e al ragazzo ‘attentatore’, forse 30 anni, scuro, asciutto, una spada minuscola tatuata sulla guancia.
Scende un altro ragazzo da un auto (chiamo ragazzi tutti quelli che hanno almeno vent’anni meno di me), quello che era stato superato dalla versione Moto GP, mentre era fermo davanti alla donna che attraversava le strisce, e che quindi, come noi, ha visto la scena esatta dalla corsia opposta. Siamo intorno a lei. La sua gamba sinistra è disarcionata. Cioè, va per i fatti suoi. Nessuno impreca verso il colpevole, nessun giudizio, tutti concentrati ad ascoltare la vittima, che detta il numero della figlia alternando urla di dolore e richiesta di aiuto, sdraiata nel mezzo esatto della zebra. Il giovane che si è fermato, piegato sui lei, premuroso, prova a chiamare la figlia, ma non risponde. Intanto mi chiede di andare a spegnere la macchina e tirargli fuori le chiavi. Lo faccio. Poi la donna detta il numero di un altro, non ho capito se il genero, ripete un nome proprio, ci prova ancora il ragazzo al quale ho riportato le chiavi della macchina. Ma niente anche questo parente. Intanto il traffico è immobile Sposto la nostra macchina a lato. Le auto cominciano a infilarsi piano, nello spazio libero, sfiorando la donna a terra, e mandando tutte qualche secondo di attenzione, morbosa e preoccupata alla pari. Ma senza invettive, blaterazioni, perché l’incidente grave seda ogni polemica. Si avvicina un signore, dice di essere un medico, io lo ringrazio, mi vien così, ma gli indico il lampeggiare ormai vicino dell’ambulanza, con un certo orgoglio muto, e capisce che non serve più. Mi dispiace un po’, si vedeva che ci teneva. Intanto parlo con lui, l’attentatore suo malgrado. Scuote la testa. Pensiamo alla signora, adesso, ripete. Gli dico Come cristo andavi? Ma perché? Poi aggiungo: Ma come stai? Hai preso un colpo tremendo, devi farti vedere! Lui ripete che ora conta solo la signora, e che poi lo sa, che appena passerà l’adrenalina si accorgerà di avere qualcosa di rotto. Lui, a quanto intuisco, vive d’adrenalina. Me lo conferma, dicendo “Speriamo che non arrivino, i vigili. Che mi arrestano subito!” Ma non esagerare. “Sono uscito di galera tre mei fa. E non ho né assicurazione, né patente.” Lo guardo stranito. Lui scuote la testa prima che io possa parlare. “Mi prendo le mie responsabilità° dice. “Ora conta solo questa donna.” Poi si piega, le dice che se ha bisogno di soldi lui c’è, lei risponde che non vuole soldi (ne avrà bisogno, sicuro, e farà di tutto, per averli) io perdo frammenti di questo loro scambio, perché scambio parole con la Vale, preoccupata, le si deforma il viso, quando è così, e mi verrebbe da abbracciarla forte, quando è così, ma non siamo in un film. Torno al nostro matto come un cavallo, e gli dico che tanto, comunque, lo dico pure dispiaciuto, verrà redatto il tutto dalle Forse dell’ordine, così si chiamano. Che lui disprezza, è certo, si vede che odia ogni autorità, lo evidenzia la smorfia sprezzante, che fatica a trattenere, perché adesso è nella fase che deve fare il buono, disprezzo già evidenziato quando ero al telefono con il 118, piccole offese a quello che faceva troppe domande. Quando avevo risolto mettendo viva voce il dolore steso sulle strisce pedonali. Alla fine lo stimo: un coglione, ma con un coraggio, una lealtà, che fa la differenza. Penso che poteva andarsene, scappare, salvarsi, tanto nel caos, male illuminato dall’incrocio nevrotico dei fari, sarebbe stato molto difficile prendere la targa. Lo so, una cosa brutta, che mi prende quando patteggio per qualcuno, come fosse davvero un cassius di film, dove non sei costretto a scegliere logica e giustizia. E comunque non lo farebbe, l’ha già dimostrato.
L’ambulanza si ferma davanti. Le auto in coda, e pure un autobus, sgattaiolano di fianco. La Vale dice che lei può testimoniare (anche lei ci tiene un po’ a questo stupido con due palle così): vorrebbe dire ai Vigili, quando arriveranno, e se, che lei ha visto che l’ha solo sfiorata. Poi guardiamo la donna, e quella gamma spezzata, e sappiamo, noi e lui, che le cose andranno come devono andare: lei ripete che lui l’ha colpita, e viste le conseguenze, sarebbe dura dimostrare il contrario. Dovremmo entrare come testimoni, in una sorta di processo. Che in un poliziesco, ci sta sempre. Ma abbiamo già una cascata di fatti nostri. Lui stesso, l’imputato, ci dice grazie, va bene così, ripete ancora che si prenderà le sue responsabilità, e mi stringe la mano. Gli dico Buona fortuna, come da copione, e lui resta lì, a parlare con quelli dell’ambulanza. Noi andiamo a prendere la nostra auto con le quattro frecce. Restiamo qualche secondo in silenzio, mentre la Vale mette la freccia a sinistra e attende il pertugio per rientrare in carreggiata. Dice che si rammarica di non aver testimoniato. Io invece penso e basta. A quello che aspetta al tizio. E poi alle storie che succedono così. Davanti a te. Che vivi per raccontarle.
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