Milano
Karl Nasr, ragazzo
Non riesco a non pensarci. E devo scriverne. Devo sfogarmi. Karl Nasr era un ragazzo libanese con passaporto Canada, aveva compiuto da un mese i 18, e veniva a Milano con i suoi almeno una volta all’anno: gli piaceva, Milano. Stava andando al Museo della Scienza e della Tecnica, che noi milanesi abbiamo visitato per dovere e con noia, quando un’auto, definita avanguardia della scienza e della tecnica in mistiche pubblicità, lo ha ‘crocifisso a un palo’. Espressione letta ovunque, e che mi scatena quell’unto cristiano che ci portiamo appresso tutti. Ho davanti l’immagine, di Karl, le mani protese avanti, schiacciato, ancora vivo, e i genitori lì, accanto, bruciati per sempre dall’attimo vissuto. Non se ne va.
Leggo su un sito agiografico di questo siluretto lucido, datato due giorni prima dell’orrore in Viale Umbria: “Audi Rs7, più aggressiva, attraente e potente e sarà prodotta in soli 200 esemplari.” Una belva esclusiva. E io sto male. Mi scava il pensiero dei suoi genitori. E odio, come una belva ferita. Non accetto la fatalità. Non rompete il caxxo voi che dite poteva essere una Punto. Quell’auto ha come pedigree la capacità, esaltata, di coprire i cento metri in un flash. Pensata per chi ha interesse a farsi quella roba lì, che dà quel flash. Il tossico meneghino di nuova generazione. L’impatto con un Suv (ma va?) che ha fatto manovra folle, guidato da una donna, a quanto pare incapace, ma fa niente, può guidare tranquilla un carroarmato perché se lo è comprato, è lampante nel suo fermo immagine finale: digerendo a fatica il sangue del ragazzo sull’asfalto, sotto il palo, si intuisce che quel cartoccio dell’Audi andava allegramente, altro che 50 all’ora. Quella cosa da 150 milioni stava per essere consegnata al padre del suo nuovo proprietario, un giovanotto di 27 anni al quale il ricco pover’uomo voleva fare il sorpresone. Ecco, con quel padre comincia la filiera del disastro umano. E suo figlio è suo figlio, contento di posteggiare sul marciapiede davanti al locale dei suoi simili, a far lo sborone dell’inutile ferraglia. Questo è. I nostri padri, i nostri nonni, vivevano nell’auto un riscatto, una libertà di movimento, il possedere qualcosa, allenati ad avere avuto il poco, vicino al niente. C’era una grazia, e una vitalità, nel motore. Oggi basta. Non c’è spazio. Serve leggerezza. Serve fluidità. E respiro. La civiltà dell’auto è morta, ma continua a imperversare come uno zombie. Dobbiamo tagliarle la testa.
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