Ambiente
«Io, cuoca selvatica e raccoglitrice, vi svelo i segreti del foraging»
Incolto. Caotico. Brutto. Sarebbe questo il giudizio della maggior parte delle persone di fronte a un giardino o un’aiuola con l’erba alta, disomogeneo, costellato di ciuffi di piante diverse. La pensa in modo molto diverso Eleonora Matarrese, botanica con un’esperienza decennale nella pratica della raccolta (il cosiddetto foraging), e autrice del libro “La cuoca selvatica” (Bompiani). Nata in Puglia una quarantina di anni fa, lo scorso agosto si è trasferita in provincia di Varese, dove ha acquistato un terreno di tre ettari.
«Ho preferito lasciarlo quasi tutto selvatico perché so che anche così ne posso trarre nutrimento – dice a Gli Stati Generali –. Una persona che non abbia studiato botanica probabilmente lo definirebbe in disordine, pieno di gramigna. In realtà c’è molto di più». In un’epoca storica in cui “sostenibilità” rischia di diventare solo l’ennesimo slogan, Matarrese segnala l’urgenza, e l’importanza, di un cambiamento di mentalità profondo. Imparare a curare i nostri giardini e le aiuole della città in modo diverso, ad esempio, è fondamentale per contribuire al ripopolamento degli impollinatori. E poi è fondamentale recuperare le conoscenze che fino a pochi decenni fa erano diffuse, quelle sulle piante, gli alberi, gli arbusti. Perché in fondo, ricorda Matarrese, «questo mondo è il nostro ambiente, ed è l’unico che abbiamo».
Quando ha cominciato a interessarsi di botanica?
Da bambina. Fino ai miei diciassette anni ho vissuto in Puglia, e passavo tutti i fine settimana e tutte le estati ad Alberobello, dove avevamo una casa di famiglia e dove abitavano i miei nonni. È stata mia nonna a insegnarmi a raccogliere: un paio d’ore prima di cenare andavamo in giro per prati e boschi a raccogliere. Quando andavamo al mare, in estate, raccoglievamo anche in spiaggia e nei dintorni.
La raccolta, il cosiddetto foraging, sta diventando un’autentica moda. Eppure oggi basta andare al supermercato per trovare tutto quello che ci serve, e anche molto di più. Che senso ha la raccolta in un contesto simile?
Per me ci sono tre elementi da cui non si sfugge. Il primo è che ce l’abbiamo nel DNA: così come un gatto quando arriva l’imbrunire ha il bisogno di uscire a cacciare, noi esseri umani abbiamo la curiosità scritta nel DNA. Quindi andare al supermercato per fare la spesa è senz’altro una comodità, ma non appaga la parte ferina che c’è in noi, e nemmeno quella curiosità atavica che porta ad andare a osservare, cercare, scoprire. In più raccogliere ci aiuta a livello fisico: stare bene con se stessi implica anche lo stare all’aperto, nella natura. Oggi va di moda il cosiddetto forest bathing, c’è persino chi paga per farlo, quando è sufficiente una semplice passeggiata nei boschi per ritemprarsi. E poi la cosa fondamentale è il nutrimento. Pensiamo agli spinaci che acquistiamo al supermercato ad esempio. Sono coltivati in serra, se va bene, ma non sappiamo esattamente quali nutrienti contengono oltre alle fibre e ai liquidi. E, spesso, sono trattati con pesticidi e sostanze per ottenere foglie splendide e grandi. Ma in natura lo spinacio non cresce così, e lo dimostra quello selvatico: si trovano interi tappeti di spinacio selvatico, più piccolo ma sicuramente più nutriente, più saporito e senza pesticidi. Senza contare che è un piacere tornare a casa con il cestino pieno! Detto questo, la raccolta ha molte regole: innanzitutto non si può improvvisare, ci vogliono conoscenze molto approfondite. E poi bisogna preservare la natura e fare sempre attenzione all’equilibrio.
Certo, in un mondo in cui le microplastiche sono state trovate persino sulla cima dell’Everest e i rifiuti infestano i fondali marini, immagino che si debba fare molta attenzione anche ai luoghi in cui si va a raccogliere.
Assolutamente sì, infatti lo segnalo ogni volta che ne ho occasione. Per anni ho avuto un ristorante a Monza, e spesso mi capitava di sentire parlare delle distese di aglio orsino del Parco di Monza. Sono così grandi che a luglio, quando va in fiore e poi in seme, la gente dice che la città puzza di aglio. E sapevo che molta gente andava a raccoglierlo. Peccato che il Parco di Monza sia attraversato da un viale molto trafficato, quindi quel povero aglio orsino è pieno di cadmio, nel migliore dei casi. Oppure pensiamo al topinambur, che forma cespugli enormi che quando fioriscono si riempiono di fiori gialli meravigliosi: il topinambur cresce proprio dove c’è l’acqua, ma spesso è acqua di scolo! Bisogna fare attenzione perché naturalmente le piante raccolte in posti simili avranno delle componenti buone, ma anche tante componenti nocive.
A Valganna, dove si è trasferita ad agosto, ha aperto un altro ristorante dove propone cibo selvatico a 360°, e immagino che molti degli ingredienti che utilizza abbiano sapori molto diversi da quelli a cui siamo abituati. Come reagiscono le persone la prima volta che assaggiano in suoi piatti?
Dipende. Ognuno reagisce a modo suo. All’inizio, a Monza, avevo realizzato un modello take away: le persone arrivavano, guardavano le vetrine e sceglievano gli ingredienti, in base al proprio intuito o ai colori, e con quelli cucinavo le pietanze, spesso rivisitando le ricette tradizionali per evitare uno shock eccessivo. Poi, quando ho avuto il ristorante vero e proprio, mi sono accorta che in molti rimanevano spiazzati. Allora ho pensato a un menù degustazione, e chi veniva per la prima volta tendeva sempre a scegliere quello. Lo faccio anche adesso, è un menù che cambia ogni otto giorni perché dipende da quello che raccolgo, quindi rispetta pienamente la micro-stagionalità del territorio. Dopodiché, porto i piatti al tavolo e li spiego.
Per lei è importante il dialogo con i clienti?
Sì, voglio che le persone sappiano cosa stanno mangiando, come si chiama, da dove viene e com’è stato cucinato. Al di là degli allergeni, parlo proprio di tutto il percorso di filiera. Qualche giorno fa ho fatto il conto: dalla mia cucina mi bastano sei passi per trovare l’aglio orsino. E mi piace spiegarlo per raccontare che non c’è plastica, per esempio, che l’unico consumo è quello dell’acqua per sciacquare, e che comunque io recupero per innaffiare. E poi mi piace molto raccontare delle storie su ogni pianta. Ad esempio parlo spesso dei marshmallow e racconto che li hanno inventati gli anglosassoni perché in anglosassone il nome della malva era mer-sc-mealwe, che vuol dire malva delle marcite. La radice cresceva in questi torrenti e diventava spugnosa e mucillaginosa, loro ci mettevano il miele e ottenevano queste spugnette zuccherine.
Tra l’altro oltre che in botanica lei è specializzata in filologia germanica, infatti parla svedese e norvegese. Il fatto di parlare molte lingue, comprese quelle germaniche, le è utile nel suo lavoro di botanica?
Sì, decisamente. Basti pensare che moltissimi testi che parlano di piante, e in particolar modo di farmacopea e fitoterapia, ma anche di ricette di cucina, sono patrimonio della cultura germanica. Consideri Ildegarda di Bingen, per esempio, che era tedesca. E poi, quando René Redzepi ha scritto il Manifesto per la nuova cucina nordica insieme a Claus Meyer, per me si è aperto un altro mondo perché c’è tutta una serie di tradizioni legate ai paesi scandinavi: Norvegia, Svezia ma pure Finlandia, che pur essendo ugrofinnica e non propriamente germanica, è comunque parte di quell’areale. È un mondo a cui mi sono appassionata, anche perché a me piace moltissimo il nord e ci ho viaggiato tanto, anche per raccogliere. Conoscendo quelle lingue ho potuto parlare con le persone e chiedere tante informazioni.
Quando ha deciso di dedicarsi a questo tipo di ristorazione, basata sull’uso di ingredienti selvatici?
Ho iniziato in tempi non sospetti, come si suole dire. Era il 2013. Anche questa decisione ha avuto a che fare con il Manifesto per la nuova cucina nordica. Un giorno ero dal parrucchiere e sfogliando una rivista ho trovato un articolo che ne parlava. Per me è stato come una folgorazione. E ho pensato a come anche noi, in Puglia, abbiamo sempre fatto la raccolta di piante ed erbe selvatiche per cucinare. All’epoca lavoravo in una multinazionale, mi occupavo di marketing e di organizzazione eventi, ma cominciavano gli anni della crisi e già si parlava di tagli di personale. E poi per me stare così tante ore in ufficio non andava bene, avevo sempre quell’anelito verso i boschi e la campagna. Allora mi sono accordata con l’azienda e me ne sono andata, e con i soldi che mi hanno dato come parte dell’accordo ho aperto il ristorante.
E l’idea del libro com’è nata?
Anche quella per caso! Il ristorante era vicino alla Reggia di Monza, e un annetto dopo che avevo aperto, era primavera, sono arrivate delle ragazze che avevano appena visitato una mostra alla Reggia, appunto. Dopo gli antipasti e il primo, una di loro mi ha chiamata e mi ha fatto un sacco di domande. Alla fine mi ha detto: “senti, qui c’è un libro da scrivere”. Era la responsabile di collana di Bompiani, che mi ha proposto di raccontare la mia storia oltre che di spiegare le ricette. Così è nato La cuoca selvatica, è stato davvero tutto casuale.
Il Covid-19 le avrà creato problemi nella sua attività di ristoratrice.
Ho dovuto reinventare un po’ l’offerta. Ad esempio ho cominciato a preparare delle cassettine con specie fresche o trasformate, che poi spedisco col corriere. Dal mio sito si possono ordinare delle piante, e ogni pianta viene spedita insieme a varie ricette che ne contemplano l’uso. Molte specie si prestano a essere conservate anche per un anno, nelle giuste condizioni. Alcune si possono utilizzare per la cura del corpo piuttosto che per la cucina.
Trova interesse da parte della gente?
Sì, assolutamente sì. Anche perché la sensibilità sta cambiando, le persone hanno molta voglia di stare nei boschi, nella natura, specie adesso che dobbiamo passare così tanto tempo in casa. Pensi che quando è scoppiata la pandemia per molto tempo mi sono rifiutata di partecipare a qualunque webinar o conferenza online. Le piante vanno viste dal vivo, toccate, annusate, bisogna mettere in gioco tutti e cinque i sensi. Ciò non è possibile online, quindi non volevo farlo. Alla fine però, in un caso, mi hanno proprio pregata di partecipare, e allora ho fatto un webinar su come usare le ghiande in cucina: mi è sembrato un buon compromesso perché in fondo le ghiande si riconoscono e sono tutte commestibili. Ebbene, ho avuto una marea di iscrizioni, da agronomi, chef, casalinghe, persone con professioni molto diverse. Tanto che ho persino fatto una replica per chi non aveva potuto partecipare.
Lei che riesce a scovare piante e fiori commestibili anche in un prato che alla maggior parte delle persone appare solo come un ammasso di erbacce… cosa pensa quando vede passare il tagliaerba nei giardini, nei parchi o nelle aiuole?
È una cosa che mi fa stare malissimo, non lo dico per esagerazione. La gente non si rende conto del male che fa in questo modo. Le faccio un esempio: quando ero bambina ricordo che partivamo per le vacanze in macchina, e quando arrivavamo a destinazione il parabrezza era pieno zeppo di moscerini e altri insetti. Adesso non succede più. Ancora, si andava per prati e ovunque si vedevano api, bombi, farfalle… ora ce ne sono davvero pochissimi, e spesso li si trova in pessime condizioni a causa dei neonicotinoidi, e perché ovunque si rasano i prati e le aiuole e questi insetti non trovano più cibo. E quando lo trovano, magari la pianta ha assorbito così tante sostanze dannose dal terreno che vengono avvelenati. Purtroppo la maggior parte della gente non capisce che passando il tagliaerba spreca tempo ed energie fisiche, inquina e priva l’ecosistema di elementi che potrebbero ricoprire un ruolo importante.
Esiste un modo per curare il proprio giardino e le aiuole delle città in maniera più sostenibile?
Sì, ma è necessario un cambiamento di mentalità. A Milano, per esempio, ho visto che nelle aiuole dove prima, in agosto, diventava tutto secco e a rischio di incendi, hanno seminato i cosiddetti semi per gli impollinatori: papaveri, fiordalisi, margherite, pratoline eccetera. Se si semina bene, nel terreno giusto, e si presta un pochino di attenzione, queste specie soppiantano quelle un po’ più ostiche. Certo, se una persona vuole il praticello all’inglese tutto l’anno ovviamente dovrà usare il tagliaerba. Per questo parlavo di un cambiamento di mentalità.
Lei nel suo terreno come fa?
Tolgo a mano le erbe in eccesso, quelle che mi danno fastidio. Sì, tolgo anche un po’ di gramigna. Ma togliendo quelle si lasciano degli spazi vuoti dove i semi di altre specie, già presenti nel terreno, possono prendere il sopravvento. Così facendo ho ottenuto fragole, tarassachi, lamio, piante che comunque fioriscono. Il punto è che se per una persona il tarassaco e il lamio sono solo erbacce, quella persona vorrà comunque usare il tagliaerba. Per questo dobbiamo imparare di nuovo a conoscere le specie.
Sostenibilità è un concetto che lei evoca spesso. E d’altra parte la raccolta è legata a doppio filo con la sostenibilità: da una parte perché può aiutare a uno stile di vita più sostenibile, dall’altra perché quando si raccoglie bisogna pensare proprio alla sostenibilità. Infatti nel suo libro lei ricorda spesso che se in un certo punto si trova un solo esemplare di una determinata pianta, non la si deve raccogliere.
Esatto, ma c’è anche di più. In questo periodo il foraging è di moda, quindi i social pullulano di gruppi di persone che raccolgono praticamente di tutto. A volte sbagliando, ad esempio raccogliendo delle piante protette pensando che siano asparagi. O raccogliendo una pianta per chiedere solo dopo di che pianta si tratti, postandone una foto. Ora, la curiosità e l’interesse sono senz’altro positivi, però prima di tutto una pianta va riconosciuta nel suo habitat! Ad esempio, bisogna valutare se il terreno è argilloso, se sopra c’è un albero di una determinata specie… tanto per fare un esempio, il boleto cresce sotto la quercia.
Quindi per praticare la raccolta bisogna essere disposti a imparare anche la pazienza.
Esatto, che è un valore che abbiamo perso, insieme a quelli della lentezza e della resilienza. E poi bisogna davvero studiare moltissimo, imparare, allenare l’occhio. Ad esempio si può pensare che il tarassaco sia facile da riconoscere, ma in realtà ne esistono molte specie apparentemente simili, di cui una è anche tossica! Dobbiamo imparare a conoscere il nostro ambiente, in fondo è l’unico che abbiamo. Per me è impensabile non avere il desiderio di scoprirlo. Al supermercato andiamo spesso a occhi chiusi a prendere quello che sappiamo essere su un certo scaffale e lo buttiamo nel carrello: è un peccato perché in questo modo anche i nostri sensi perdono l’allenamento. Proprio come i nostri muscoli se stiamo troppo tempo seduti.
Immagine in copertina: Ryck Valli Photography
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