Milano
In difesa delle palme in piazza Duomo
In questi giorni a Milano o, meglio, negli echi dissonanti che rimbombano sui vari mezzi di comunicazione di vecchia e nuovo massa gravitanti su Milano, non si fa altro che parlare delle palme e dei banani in piazza Duomo.
Incuriosito dalla virulenza di un dibattito così acceso su un tema così insignificante – seppur disinteressato in origine alla questione ed essendo altresì permeato da un asettico e pregiudiziale parere contrario a questo progetto di “verde” in piazza Duomo – ho provato ad attivare il mio cervello. Ciò per cercare di farmi un’opinone leggermente più articolata di quanto possa essere la lettura delle palme quale preludio a una pastorizia di innocui cammelli di fronte al Duomo o, peggio ancora, come la legittimazione dell’avanzata afro-islamista su Milano. Mi pare che la questione sia un po’ sfuggita di mano, insomma; e che le palme siano, dopo la crociata contro il loro olio, delle vittime da difendere. E che forse si possa discutere, con maggiore serenità, a partire anche da alcuni elementi di conoscenza oggettivi.
In tal senso, per puro caso, posso vantare una coincidenza recente e fortunata che mi ha aiutato a formarmi una opinione meno emotiva sulle aiuole risistemate in fondo a piazza Duomo.
Qualche settimana addietro, infatti, ho avuto l’onore di pranzare – per lavoro – con Michel Desvigne che è non solo uno dei più importanti paesaggisti di fama mondiale, ma anche una persona di estrema piacevolezza, dotata di una solida cultura e di una raffinata ironia.
Abbiamo gradevolmente colloquiato – in quell’ora e mezza – di città, di paesaggio e del rapporto tra città, campagna e ricostruzione del medesimo paesaggio, oggi drammaticamente devastato, soprattutto nelle frange periurbane ai margini delle aree metropolitane (e qui, dove servirebbe un dibattito enorme, s’ode un rimbombante silenzio!). Ma, trovandomi al cospetto di una così importante e disponibile personalità, non ho mancato di fare a Desvigne una domanda che da circa 20 anni ribolliva nella mia mai sopita coscienza di architetto.
La domanda era correlata alla mia esperienza – breve ma intensa – di neolaureato a bottega in uno studio milanese, nello specifico nello studio dell’architetto Luca Bergo che – all’epoca – era il riferimento milanese del famoso architetto francese Dominique Perrault. Orbene, in quel lontano 1998 ci trovammo a concorrere, con Perrault capogruppo (che ricordo anch’egli come persona molto simpatica), al concorso per piazza Gramsci a Cinisello Balsamo. E vincemmo il primo premio.
L’idea di Perrault fu di portare in superficie una piazza ipogea e di realizzare, in un angolo, su una piccola marmorea soprelevazione, un boschetto fatto di pini marittimi perché, a dire di Perrault, avrebbero prodotto un colonnato arboreo dotato di una splendida ombra mediterranea. Lo confesso: per anni ho pensato che quell’idea fosse un’idiozia, poiché ho sempre ritenuto che il riferimento di un architetto che si trovasse a innestare alberi in piazza dovesse essere sempre e solo ad essenze autoctone. Ecco, dunque, la domanda a Desvigne, posta facendo capire che quei pini marittimi a Cinisello Balsamo mi parevano uno stupido vezzo da archistar.
Ma Desvigne, che aveva appena vantato le glorie del Parco Agricolo Sud Milano e delle sue essenze identitarie, mi ha spiazzato con un’argomentazione solida e convincente, dicendomi con cortesia che stavo sbagliando e che Perrault, in fondo, aveva pensato giusto. Perché, mi ha spiegato, nella teoria (e nella pratica, aggiungo io) del paesaggio, quando si progetta, si fa una distinzione di base fondamentale rispetto agli ambienti dove si andranno a collocare alberi, essenze e arbusti. Se gli ambienti sono “minerali”, come piazze, strade, slarghi, una volta stabilita la compatibilità dell’essenza scelta con il clima del luogo, tutto è consentito; se l’ambiente è “naturale”, ossia si tratta di un parco urbano, di un parco agricolo, di un parco di cintura, vale invece la regola della ricostruzione attenta del paesaggio autoctono e identitario. Quindi, a giudizio di un grande paesaggista, non c’era errore a Cinisello e – per tirare una correlazione – forse non ci sarebbe alcun errore a Milano. Perché una palma può stare in una piazza italiana ma non in un giardino.
Per tornare a piazza Duomo, dunque, penso che la questione sia da ascrivere alla valutazione di ciascuno rispetto alla propria percezione estetica poiché, in fondo, non c’è poi nulla di così strano. Su Urbanfile, infatti, è stato pubblicato un post che dimostra come a Monza vi sia un terrapieno – in pieno centro – con un bellissimo filare di palme.
Concludendo penso di poter dire che – nonostante palme e banani non mi entusiasmino – in fondo questo progetto, che sta facendo parlare di sé, di Milano, di alberi e di piazze, non è poi così male. Sapendo che, oltretutto, non è perenne (durerà tre anni) e non c’è nemmeno un costo a carico del Comune ma di uno sponsor privato. Che ha scelto Milano, perché città viva e aperta, per sbarcare in Italia.
P.S. 1 – ai tanti amici che leggono nelle palme un simbolo di cedimento dei nostri “valori” a quelli dell’Islam (confesso che con tutto l’impegno fatico a vedere nella palma una minaccia), suggerisco non tanto di pensare a che alberi crescono nella gran parte delle regioni italiane, ma di farsi un giro tra i giardini di molte case, casette e villette della nostra amata padania: vedranno che le palme, da decenni, sono molto ben volute e ben piantate dal popolo delle nostre parti.
P.S. 2 – per fare un rozzo richiamo identitario ricordo che la palma, nella domenica che precede la Pasqua di nostro Signore – detta appunto “Domenica delle palme” – è essenza arborea simbolicamente costitutiva della nostra identità cristiana.
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