Milano
In difesa della “Maestà Sofferente”
In occasione della Milano Design Week 2019 piazza Duomo ospita la Maestà Sofferente, monumentale installazione di Gaetano Pesce che ha suscitato polemiche e proteste, in particolare da parte del collettivo femminista Non Una di Meno. L’opera, versione ingrandita di una celebre poltrona disegnata dallo stesso Pesce nel 1969, ha forme vagamente antropomorfe che evocano un corpo femminile trafitto da innumerevoli frecce e, nelle intenzioni dell’Autore, rappresenta le donne vittime di violenza; ma è stata contestata perché “reifica ciò che vorrebbe criticare (…): la donna per l’ennesima volta è rappresentata come corpo inerme e vittima, senza mai chiamare in causa l’attore della violenza”.
Certamente l’installazione non lascia indifferenti, anche perché il suo messaggio è reso particolarmente esplicito dall’uso del colore rosa carne: una scelta in qualche modo tipica per un artista ormai anziano, che forse non si sente più in sintonia con il proprio tempo e cerca di evitare di essere frainteso – cosa che però è, suo malgrado, avvenuta.
La Maestà non è un’opera a sé stante, ma è la citazione di un pezzo di design e come tale va contestualizzata. Quando Pesce creò la serie Up per l’azienda di arredamento C&B, alla soglia degli anni Settanta del secolo scorso, la liberazione della donna era appena agli albori; dando alla sua poltrona “Up5” le forme avvolgenti di un corpo femminile privo di testa, Pesce intendeva evocare le sensazioni di protezione e accoglienza ma anche, nello stesso tempo, denunciare la condizione delle donne: “con quella poltrona ho voluto parlare di una condizione umana, la prigionia della donna vittima dei pregiudizi degli uomini”, ha spiegato anni dopo il famoso designer. L’essere umano di sesso femminile è rappresentato solamente come grembo, ha cioè valore solo per il suo ruolo riproduttivo; la poltrona è accoppiata a un poggiapiedi di forma sferica, “Up6“, che richiama sia l’idea della gravidanza che quella di palla al piede, paralizzante zavorra – quale in effetti era, all’epoca, la maternità per le donne che volevano emanciparsi dal ruolo tradizionale di moglie e madre. L’oggetto di arredamento veniva dunque utilizzato dal suo autore come modo di parlare politicamente, sfruttando il suo potenziale nuovo di comunicazione per influenzare la cultura della sua epoca, nella logica del design radicale: in questo caso, per riproporre in modo provocatorio le rivendicazioni femministe.
Replicare la Up5 – divenuta nel frattempo un’icona del design, tanto da essere ospitata nella collezione permanente del MoMA di New York – significa dunque attualizzare il messaggio originario: secondo Pesce, ancora oggi la donna è prigioniera della sua funzione materna, malgrado decenni di lotte femministe. E’ interessante notare che l’artista non ha voluto alludere alla mercificazione sessuale del corpo femminile, ma al confinamento della donna nel suo ruolo tradizionale, ancora non superato; a ciò ha collegato, con il simbolo delle frecce, le mille violenze piccole e grandi che a quel ruolo sono associate. Quella stessa società che addita alle donne il dovere di essere madri le martirizza infatti con le ansie da prestazione indotte dal duplice compito di madri e lavoratrici, con il body shaming per il peso in eccesso dovuto alla gravidanza o con il mobbing che spesso le attende sul lavoro, al rientro dal congedo di maternità; a volte, con l’aggressione fisica e psicologica esercitata da mariti e compagni che si ritengono padroni della loro vita.
La reificazione che le attiviste di Non Una di Meno rimproverano a Gaetano Pesce è allora un potente messaggio civile: la Maestà è una denuncia della riduzione del femminile a oggetto del potere maschile, non più con l’arma delle regole sociali da rispettare ma con quella, più subdola, della violenza quotidiana. Le femministe milanesi lamentano che l’ulteriore violenza sulle donne rappresentata da quest’opera è “prodotta da un uomo” (e “all’inaugurazione ne hanno parlato soltanto uomini: quel sesso che storicamente così poco si è interrogato sul proprio essere autore di violenza e sull’immaginario cui attinge quando crea opere sul femminile”); a me pare, al contrario, molto significativo che una contestazione così pregnante alla prepotenza maschile venga proprio da un uomo.
“L’ opera d’arte deve fare scandalo“, ha sostenuto Vittorio Sgarbi. La Maestà Sofferente di Pesce ha ubbidito al precetto, cosa non facile in un’epoca ormai smaliziata come la nostra; e forse l’atmosfera un po’ fighetta della Design Week aveva bisogno di uno scossone per evitare di irrancidirsi in un’autocelebrazione di maniera, come accade con gli appuntamenti fissi dedicati alla creatività italiana. Un manierismo che anche le attiviste per i diritti della donna dovrebbero sforzarsi di evitare, perché le loro buone intenzioni non finiscano per non trovare più interlocutori dall’altra parte…
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