Milano
Il problema della casa e l’economia della rendita a Milano
Le tende degli studenti universitari davanti al Politecnico e alla Statale hanno pienamente riacceso i riflettori dei media sul problema della casa a Milano. Finalmente, verrebbe da dire, perché il problema si trascina da moltissimi anni, almeno da quando, a partire dagli anni ’80 del secolo scorso, si è smesso di costruire edilizia residenziale pubblica in proporzioni adeguate alla domanda ed è stato alienato un ingente patrimonio pubblico.
Il tema degli affitti per gli studenti è molto rilevante, anche in ragione della crescente attrattività dei nostri atenei per gli studenti fuori sede italiani e internazionali, e necessita di risposte specifiche, che devono coinvolgere le istituzioni, le università, gli attori del privato sociale e le imprese. Ma il problema abitativo a Milano ha molte facce, persino più drammatiche.
A Milano oggi ci sono almeno 600 persone che vivono per strada, contate probabilmente per difetto. Il Comune, che ha opportunamente avviato un monitoraggio continuo dei senza fissa dimora, ospita già circa 2500 persone senza casa nelle proprie strutture. 17 mila famiglie hanno partecipato all’ultimo bando del Comune per alloggi pubblici, che ora si chiamano SAP, ma che sono le case popolari. Secondo le organizzazioni sindacali, la capacità di assorbimento annuale è di circa 700/800 alloggi. Senza dimenticare le condizioni abitative irregolari, se non illegali, in cui vivono tantissimi stranieri, non solo giovani, ma anche famiglie con bambini, che lavorano a Milano e che sono costretti spesso a coesistenze forzate in alloggi troppo piccoli e malsani.
D’altra parte, Milano è una città nella quale vi sono almeno 15 mila appartamenti destinati ad affitti brevi, che limitano la possibilità di trovare un alloggio a prezzi accessibili a giovani, studenti, famiglie in condizioni di fragilità socioeconomica. I valori immobiliari sono cresciuti in modo spaventoso negli ultimi cinque anni: secondo alcuni studi tra il 35 e il 40%. Anche durante la pandemia, Milano è stata l’unica città italiana nella quale, a fronte di un rallentamento del numero delle compravendite, i valori al metro quadro degli appartamenti non sono calati in modo significativo.
L’incremento degli affitti e dei valori immobiliari non è ovviamente uniforme dello spazio urbano, anche se la stupefacente processo di esplosione dei prezzi sembra riguardare la quasi totalità del territorio del Comune, con alcune significative eccezioni in contesti critici e periferici. Diversa è la situazione dei comuni metropolitani, anche di quelli più prossimi a Milano, dove la bolla immobiliare non sembra così accentuata. Anche su questo tema, il “divorzio” tra il Comune capoluogo e il territorio metropolitano esteso è sempre più accentuato, e richiederebbe una capacità di programmazione e di governo metropolitano a oggi largamente assente.
Come si è giunti a questa situazione? Cosa si può fare? Il problema abitativo a Milano è il segnale più evidente, ma non l’unico, che l’attrattività della città ha dei costi e dei rischi, in termini di crescita delle disuguaglianze socio-spaziali e di aumento delle popolazioni in condizioni di fragilità. Per la prima volta da molto tempo, lo sviluppo non è segnato da un aumento generalizzato del benessere. Come già accaduto in altre città europee, ad esempio a Londra, la città dei ricchi e la città dei poveri, ma anche quella del cosiddetto ceto medio e del lavoro dipendente, si divaricano sempre più.
Questi processi non sono accaduti da un giorno all’altro; si sono aggravati nel corso di decenni in cui c’è stato un ingente spostamento di potere, di risorse, di patrimoni dalle istituzioni al mercato, dal pubblico al privato. In questa fase lo stesso discorso pubblico, e con esso le culture politiche, anche a sinistra, sono state profondamente segnate dalla rimozione delle questioni della giustizia sociale e distributiva e della necessità dell’azione pubblica al fine di garantire adeguatamente i diritti di cittadinanza.
Questo mutamento dell’assetto dei poteri e dei regimi discorsivi si è accompagnato, nel nostro paese e anche a Milano, ad una crescita del ruolo della rendita e delle molte rendite di posizione nei meccanismi di distribuzione e redistribuzione del reddito e della ricchezza, a fronte di una crisi profonda di produttività che si è accompagnata ad una riduzione della quota dei redditi da lavoro sul totale delle retribuzioni. Pur essendo ancora Milano, e soprattutto la sua grande regione urbana, una straordinaria piattaforma produttiva e una localizzazione di economie urbane innovative, la rendita ha preso sempre più spazio, drenando risorse non solo al lavoro, ma anche al capitale imprenditoriale.
Per cambiare la situazione è dunque necessario, in primo luogo, limitare il potere della rendita. L’economia della rendita, i guadagni elevati degli affitti brevi, ma anche la diffusa illegalità degli affitti in nero, devono essere regolamentati e disincentivati, spostando risorse dalla rendita ai redditi da lavoro, soprattutto dipendente (oggi la quota di reddito utilizzata per pagare un affitto o un mutuo è a Milano mediamente tra il 40 e il 50%!), ma anche ad economie produttive, calmierando il mercato urbano e permettendo il radicamento di chi oggi arriva in città e spesso è costretto ad andare via nel giro di pochi mesi o anni.
Ci sono esperienze in Europa che mostrano che si può fare. Si possono regolamentare in modo efficace gli affitti brevi, fissando un tetto annuo massimo di giorni in cui un appartamento viene posto sul mercato, limitando gli affitti brevi alla prima casa, fissando un numero massimo di licenze per quartiere. Si può mettere mano alle regole che oggi non consentono, o consentono a fatica, di utilizzare il patrimonio, pubblico e privato, dismesso o sottoutilizzato, al fine di favorire una estensione del mercato degli affitti a basso prezzo. Ènecessario essere inflessibili con chi sfrutta la povertà, affitta in nero, non paga le tasse, affinando i controlli incrociati e punendo l’illegalità. Vanno invece evitati segnali sbagliati, come la detassazione degli affitti pagati dagli studenti o l’aumento delle forme di vaucher o di sussidi di cui si sta discutendo. Sarebbe paradossale alimentare (con la fiscalità pubblica!) il mercato, contribuendo a ingigantire la potenziale bolla immobiliare, invece di intervenire dal lato dei prezzi.
Vi è poi il fronte più delicato. Mai come ora, quando Milano è così attrattiva per i capitali anche internazionali, il Comune deve trattare con i privati spuntando condizioni più favorevoli per la collettività. Sappiamo bene che il governo del territorio richiede forme di interlocuzione tra istituzioni e mercato, tra soggetti pubblici e privati. Tuttavia, per troppi anni abbiamo pensato che l’arrivo degli investitori fosse la condizione necessaria e sufficiente per lo sviluppo urbano. Non è così, e non solo per i rischi in termini di sostenibilità ecologica di un modello dell’attuale modello di crescita insediativa. Anche la regolazione urbanistica e la negoziazione devono essere in grado di ottenere dai privati (per esempio, dagli operatori che stanno sviluppando il mercato delle case per studenti, e con i quali si potrebbero definire condizioni più vantaggiose per le quote di posti letto convenzionati) condizioni che permettano di calmierare i prezzi e di riservare quote rilevanti della nuova offerta abitativa non solo alla “zona grigia” (del ceto medio impoverito, delle giovani famiglie, degli studenti…), ma anche ai poveri e alle fasce più deboli.
Non si tratta di azioni che si attuano da un giorno all’altro. Tuttavia, è necessaria una radicale inversione di tendenza, culturale oltre che operativa. Solo a questa condizione le tende coraggiose degli studenti universitari potranno portare un cambiamento permanente e non saranno presto dimenticate.
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