Milano
Il genio apolide dell’arte milanese alle Gallerie d’Italia
La mostra “Il genio di Milano”, alle Gallerie d’Italia, prova a mettere in fila quasi sette secoli di storia dell’arte, sul filo di un’idea: raccontare la presenza a Milano di pittori, scultori e architetti “forestieri”
Non esistono mostre impossibili. Ci sono, sì, disegni curatoriali più ambiziosi di altri. “Il genio di Milano”, alle Gallerie d’Italia, prova a mettere in fila quasi sette secoli di storia dell’arte, sul filo di un’idea: raccontare la presenza a Milano di pittori, scultori e architetti “forestieri”, e il loro operato, in grado di innovare e trasformare il linguaggio artistico locale.
“Vieni a vedere qui”. Stefano Zuffi mi indica il ritratto che Joshua Reynolds fece al marchese Barbiano di Belgiojoso, quando il nobile milanese, ammesso alla corte viennese di Maria Teresa nel 1762, venne inviato come ambasciatore a Londra, alla corte di Giorgio III, di cui divenne grande amico, favorendo la distensione dei rapporti diplomatici tra corona britannica e Asburgo. La figura di tre quarti sembra uscire dall’ombra, stagliandosi su di un cielo atmosferico. Una posa studiata nel “gran style” che Reynolds aveva messo a punto nell’atelier di Great Newport Street, in competizione con la ritrattistica ufficiale di Gainsborough, con accenti più veneziani. Il ritratto del Belgiojoso è nella collezione privata di Flavio e Agnese Valeri, ed è stato prestato alla mostra “Il Genio di Milano”, alle Gallerie d’Italia fino al 16 Marzo prossimo. Crocevia delle arti dalla fabbrica del Duomo al Novecento”, presso le Gallerie d’Italia di piazza della Scala.
Crocevia milanese
Mancano pochi minuti all’inizio della conferenza stampa di presentazione della mostra, ma c’è ancora il tempo di seguire Alessandro Morandotti davanti a un formidabile confronto tra un “Ercole e Nesso”, creazione notturna del veneziano Sebastiano Ricci, un “Sacrificio d’Isacco” del valsoldano Paolo Pagani e un monumentale “Ercole e Anteo” del milanese Andrea Lanzani. Ricci era già un artista richiesto in tutta Europa quando, per problemi con la giustizia, dovette riparare a Parma, sotto la protezione di Ranuccio Farnese. Alla morte di questi, nel 1694, giunse a Milano, affermandosi rapidamente come l’astro di uno stile internazionale in vertiginosa evoluzione, accolto da una clientela di collezionisti che amavano condividere il gusto delle grandi capitali. In casa del marchese Cesare Pagani, diplomatico con incarichi a Parma e Londra, Ricci ha probabilmente incontrato Paolo Pagani, artista ramingo che aveva lavorato a lungo nei cantieri delle corti della Moravia, affermandosi come instancabile decoratore, sino a tornare nella nativa Castello di Valsolda, sopra il Ceresio, dove, tra il 1696 e il 1697 avrebbe stupito i compaesani dipingendo la volta della parrocchiale di San Martino con un grande ciclo dedicato alla Vergine, che è quasi un omaggio a Pellegrino Tibaldi, anch’egli valdosaldano e apolide. Una vicenda curiosa unisce il pittore e il marchese: Pagani cercò di ottenere una patente di nobiltà, sfruttando il cognome e la benevolenza del proprio mecenate. Qui però conta esclusivamente l’innalzamento del proprio stile, provocato dall’incontro con Sebastiano Ricci, pur nei termini di una pittura luminosa e colorata, fatta di volumi come enfiati dall’aria. L’ “Ercole e Anteo” di Lanzani, monumentale risposta alla forza scultorea della tela di Ricci, sta invece nelle collezioni del Kunsthistorisches Museum a Vienna, e potrebbe costituire una traccia di una committenza legata al Principe Eugenio, il militare piemontese, impareggiabile stratega, che comandava allora l’esercito imperiale.
Il disegno curatoriale
Inizia così a dipanarsi la trama di questa mostra, “Il Genio di Milano” alle Gallerie d’Italia, che nella storia dell’arte milanese segue il filo rosso delle presenze forestiere, capaci di innovare il linguaggio locale, di fecondarlo e contaminarlo con gli influssi provenienti prima, ai tempi del cantiere della cattedrale, dall’Europa transalpina, poi, all’epoca degli Sforza, con la lezione proveniente dai centri italiani del Rinascimento, e sempre, trasversalmente, con le folate nordiche che provenivano dalla Borgogna, dalle Fiandre e dalla Germania. Gli artisti stranieri avrebbero sempre trovato a Milano una clientela e committenza curiosa, di grande estroversione intellettuale, mai seduta sulla persistenza locale di linguaggi attardati.
Il disegno curatoriale della mostra ospitata dalle Gallerie d’Italia si spinge a immaginare che questo fil rouge possa tenere assieme un tempo molto lungo, dalla fondazione del Duomo all’affermazione di Fausto Melotti e Lucio Fontana. Sulla carta sembra un azzardo, ma la curatela di Marco Carminati, del già citato Alessandro Morandotti, di Fernando Mazzotta e Paola Zatti riesce a scandire questa sorta di manifesto del “Milanesi si diventa” in dieci quadri coerenti, quasi a fissare un doppio paradigma: da un lato i forestieri divengono pienamente milanesi, dall’altro gli artisti locali, a contatto col loro influsso, si sprovincializzano, e maturano un avanzamento che consente di condividere e diffondere le acquisizioni prodotte da questo scambio.
Nel prender le mosse dal tempo in cui il crollo del campanile di Santa Maria Maggiore, nel 1353, costrinse i milanesi a immaginare una nuova e più ampia basilica, la mostra pare quasi riecheggiare un testo divugaltivo che ebbe largo successo alla fine degli Anni Ottanta, “Grandi peccatori, grandi cattedrali” di Cesare Marchi. Sembra infatti di entrare nel Duomo, al tempo in cui cominciano ad affluire da Oltralpe scultori, scalpellini, maestri vetrai. Il tedesco Hans Fernach, che realizza il portale della sagrestia meridionale, Antonio da Regezia, che giunge in città con oltre duecento collaboratori, e Walter Monich, scultore bavarese che diventerà il vero protagonista della fabbrica della cattedrale nel primo scorcio del XV secolo. Le maestranze lombarde in questa fase apprendono febbrilmente le conoscenze dei maestri tedeschi e francesi, e presto sono in grado di operare autonomamente, con risultati altrettanto spettacolari.
Ingegnere prima che artista
L’avvento di Leonardo a Milano è legato come sappiamo a circostanza che prescindono dall’arte. Nella lettera di presentazione al Moro, esposta in mostra, e appartenente al Codice Atlantico conservato dall’Ambrosiana, insiste soprattutto sulle proprie capacità di ingegnere idraulico e militare. Non fa che assecondare in tal senso la fama di discepolo della principale officina di fusori esistente all’epoca, quella del Verrocchio, da dove era uscito il bronzo dell’ “Incredulità di Tommaso”, risultato di una fusione straordinariamente complessa. All’epoca chi sapeva maneggiare con tale capacità i metalli era capace di concepire e fabbricare armamenti: il primato artistico era anche tecnologico. Ma il maestro è presto coinvolto anche nella questione del tiburio della cattedrale, per cui vengono ascoltati i pareri di altri forestieri, come Bramante e Francesco di Giorgio Martini. Leonardo produce com’è noto anche dei disegni e un modello ligneo, poi andati perduti, ma alla sua soluzione è preferita quella dei milanesi Amedeo e Dolcebuono, certamente meno ardimentosa, dimostratasi comunque capace nel tempo di sostenere anche il peso dell’addizione della guglia maggiore sormontata dalla Madonnina.
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