Milano
Il fighettismo di Milano
Amo Milano, la mia città e la città di tutti quelli che ci vogliono stare.
Milano, ospita, accoglie, fa sentire tutti come se ci fossero sempre vissuti, almeno una volta era così.
Inclusiva e all’avanguardia, non c’è bisogno del dialetto per ricordare che Milano ha il cuore in mano, che chi gira le spalle a Milan le gira al pan e via così.
Alla stazione Centrale negli anni cinquanta e sessanta, arrivavano gli immigrati dalle varie parti di Italia, come, nei decenni precedenti (e in quelli successivi), sono arrivati scrittori, poeti, calciatori, architetti, editori, musicisti, chimici, fisici etc..
A Milano sembrava che tutto si potesse realizzare.
La città ha cambiato pelle, passando dall’industria al terziario.
Dagli anni settanta agli ottanta, il passaggio non è solo una tautologia numerologica, è una frattura temporale. Dalle balere dell’ARCI all’Amnesie (qualcuno ricorderà la canzone del Maestro Jannacci, Son s’cioppaa).
Dal cumenda grossolano, bausciaà, al less is more Armaniano.
Dalle latterie agli apericena.
Non sono un nostalgico della Milano che è stata, quella delle luci gialle e dei cortei; del coprifuoco allo scendere del buio; degli scontri tra i Katanga e i sanbabilini; delle figure violente della mala (Turatello, Vallanzasca, Epaminonda etc..); del terrorismo; degli omicidi di giudici, giornalisti, poliziotti e carabinieri, dirigenti d’azienda, medici. Per ritrovarci sel lucicchio della Milano da bere e finire con Tangentopoli.
Tutto sembra essersi consumato con l’intensità di una candela che brucia da due lati, con tanta luce ma che è durata poco.
Milano è stata anche questo e, come la natura, si è adattata ed è cambiata.
La Milano di oggi ha perso il senso della misura (anche il periodo del covid non ha portato ad alcuna riflessione), tutto deve essere trendy, c’è una week per qualsiasi cosa tranne che per la povertà, il disagio.
Una poor week non è per niente cool.
I poveri sembrano non esistere (sono rimossi), le periferie sono trascurate, sino a quando non vengono gentrificate.
Il fighettismo sembra essere diventato il faro, la linea da seguire, questo atteggiamento rischia, però, di fare di Milano un posto attrattivo solo per chi ha i soldi.
Gli altri? bé che si arrangino.
Il fighettismo della rincorsa all’hotel più di lusso, al ristorante con più stelle, alle sfilate con più celebrità, al locale di chissà dove che decide di aprire qui, ai flashmob degli stilisti, al battezzare i nuovi quartieri e zone già esistenti con nomi nuovi (e non topografici) e via così a rotta di collo e di euro.
La settimana del Salone del mobile (magica, viva, prorompente) si cerca di replicarla in continuazione: così la design week finirà per diventare una delle 52 week qualcosa. Ma non fa niente, l’ideologia fighetta vive e lotta insieme a noi.
Una città è viva se tutti i suoi abitanti sono vivi, non se si “divide” tra chi ha paura a lasciare la casa perché rischia di trovarsela occupata e chi fa polemiche per il prezzo della pizza dei locali di lusso.
E’ tutto talmente calato “dall’alto”, programmato e senza spontaneità, che anche quanto di meraviglioso viene fatto (penso alle associazioni, al volontariato e a tanto altro) “dal basso”, sparisce.
Contano solo i watt meno le idee.
Conta essere fighetti tra i fighetti.
ph. Uliano Lucas
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