Milano
Il caso BEIC tra paradossi e opportunità di cambiamento
Ma è davvero possibile continuare a ignorare l’assenza e l’applicazione di una regolamentazione chiara sul conflitto di interessi? Perché, in fondo, se tutto è concesso, nulla è sorprendente.
La recente vicenda giudiziaria che vede coinvolti gli architetti Stefano Boeri e Cino Zucchi, in relazione al concorso per la progettazione della Biblioteca Europea di Informazione e Cultura (BEIC), potrebbe sembrare a prima vista una storia di ordinaria amministrazione.
Il reato contestato è quello di “turbativa d’asta” che il codice penale attribuisce a condotte di chi “con violenza o minaccia, o con doni, promesse, collusioni o altri mezzi fraudolenti, impedisce o turba la gara nei pubblici incanti o nelle licitazioni private”. Insomma, parliamo di un reato che incarna comportamenti eticamente riprovevoli e penalmente censurabili di cui, secondo la Procura, i due architetti si sarebbero resi responsabili nell’ambito del loro ruolo di Commissari del Concorso favorendo progettisti coi i quali hanno consuetudini professionali e accademiche. Ovviamente il lavoro della Procura dovrà accertare e dimostrare queste contestazioni ma al di là degli esiti di questa vicenda emerge comunque un quadro più complesso che solleva interrogativi importanti: è davvero possibile continuare a ignorare l’assenza e l’applicazione di una regolamentazione chiara sul conflitto di interessi? Perché, in fondo, se tutto è concesso, nulla è sorprendente.
Conflitto di interessi e traffico di influenze: l’intramontabile “gioco delle parti”
Il conflitto di interessi è quella curiosa condizione in cui gli interessi personali di un individuo tendono a fare capolino proprio lì dove non dovrebbero: nei processi decisionali pubblici. Quando questo fenomeno non è regolamentato in modo chiaro, il traffico di influenze — elegante eufemismo per indicare un malcostume consolidato — trova terreno fertile. Il tutto condito, ovviamente, da un sottile equilibrio tra legalità e opportunismo.
In Italia, il traffico di influenze illecite è teoricamente un reato disciplinato dall’art. 346-bis del Codice Penale, ma è evidente che le norme, da sole, non bastano. E così, nei concorsi di architettura come quello della BEIC, i commissari giudicanti spesso si trovano a fare i conti con la sovrapposizione dei propri ruoli accademici, professionali e — perché no? — politici. Non è che sia un problema nuovo, intendiamoci, ma la mancanza di un sistema serio di verifica lo rende quasi un dettaglio di colore.
Tra accademia, professione e politica: la regola dell’opacità
C’è qualcosa di profondamente affascinante nella commistione tra accademia, professione e politica. Gli accademici, con il loro carico di autorevolezza e savoir-faire, dominano spesso i processi di selezione di concorsi pubblici e panel di esperti. Ma quando questi stessi accademici esercitano anche la libera professione o collaborano con studi privati, la situazione si fa più nebulosa. E, come in ogni buon giallo, più nebulosa è la situazione, più la trama si complica.
Un altro capitolo della saga è rappresentato dalla selezione delle commissioni giudicatrici: un sistema che, spesso, è chiuso e autoreferenziale. Un po’ come una partita di poker in cui tutti conoscono le carte dell’altro, ma nessuno si azzarda a dichiararlo apertamente.
Ah, e poi c’è il capitolo università, dove il controllo non è più solo indiretto. Gli atenei, con la loro posizione privilegiata, dominano mercati professionali e “colonizzano” i Consigli dell’Ordine degli Architetti. E se ci fosse ancora qualche dubbio, le convenzioni stipulate con le pubbliche amministrazioni li pongono in una posizione di vantaggio rispetto ai liberi professionisti. Si tratta di una dinamica anomala che consente agli atenei di operare nel mercato professionale senza sottostare alle regole ordinarie di selezione e qualificazione previste per gli altri operatori. Geniale, no?
Le conseguenze di questo “gioco delle parti”
Quando il conflitto di interessi diventa sistemico, le conseguenze sono tutt’altro che marginali. La selezione della classe dirigente si trasforma in un esercizio di networking piuttosto che in un processo meritocratico. Le figure professionali o accademiche che emergono non sono necessariamente le più qualificate, ma le più abili nel tessere relazioni personali e politiche. E mentre i giovani talenti restano ai margini o scappano all’estero, si assiste a una perdita collettiva in termini di innovazione e qualità progettuale. Ma tant’è, pare che il sistema abbia imparato a convivere con queste dinamiche.
Superare lo status quo: un esercizio di realismo e speranza
Diciamolo chiaramente: il sistema non cambierà da solo. Servono interventi normativi e culturali coraggiosi per rompere questo circolo vizioso. Qualche idea? Ecco un elenco non esaustivo:
- Un registro pubblico dei conflitti di interessi: perché non obbligare i membri delle commissioni di concorso a dichiarare i loro legami? La vicenda in corso dimostra che questa regola da sola non basta… ma è un inizio.
- Separare accademia e professione: limitare i ruoli multipli dei docenti universitari, almeno nei concorsi pubblici, sarebbe una mossa di buon senso.
- Criteri trasparenti per le commissioni: monitoraggi indipendenti e criteri oggettivi potrebbero ridare un minimo di credibilità al sistema.
- Regolamentare le convenzioni universitarie: perché non mettere sullo stesso piano le università e i liberi professionisti? Equità, questa sconosciuta.
- Promuovere una cultura della trasparenza: formazione e sensibilizzazione potrebbero essere gli ingredienti mancanti di una ricetta già complicata.
Conclusione: un’opportunità nascosta?
Il caso BEIC potrebbe essere ricordato come l’ennesimo scandalo o, più ottimisticamente, come un campanello d’allarme. Se si riuscisse a coglierne le implicazioni più profonde, potrebbe rappresentare un’occasione per avviare un vero cambiamento. Certo, la strada è lunga e lastricata di resistenze, ma ogni viaggio inizia con un primo passo. E magari, questa volta, potremmo scegliere di camminare nella direzione giusta.
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