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Expo, da siciliano la promuovo. Nonostante le critiche sul cluster mediterraneo
C’è una enorme discrasia tra i social network, la verità virtuale di internet e quella tangibile della realtà tout court. Ad esempio su Expo. Denigrata all’ennesima potenza, Expo si è rivelata ai miei occhi come un concentrato di culture, di esperienze, di colori, di emozioni. Una organizzazione impeccabile e una massa di visitatori mai vista, alla faccia di chi ne agognava il flop. Padiglioni aperti e completi, lunghissime file che mi hanno impedito di vederne più della metà. Ma i gufi di professione saranno scontenti di sapere che il cluster da 10 e lode è quello in cui la Sicilia è oramai diventata la padrona di casa: il Bio Mediterraneo. L’unico a parlare di cibo facendolo toccare con mano, dove “degustare” no è un verbo spoglio di significato, né un’illusione né tantomeno una pratica da barattare con moneta sonante. Ho partecipato ad una lezione sul grano, sulla farina, sul pane e sulla pizza a cura del Gal dell’entroterra siracusano. Prima la teoria, poi la pratica: l’assaggio finale, tripudio delle papille gustative e gran festino dello sfamarsi a costo zero. Un rito celebrato da siciliani, gran sacerdoti dell’accoglienza, con gli altri Paesi a fare da cronice, da comprimari, presenze buone a fare da corollario nei pomeriggi made in Sicily. Noi siciliani, attraverso la lezione di Expo, dimostriamo non solo di sapere parlare di cibo, ma soprattutto di saperlo cucinare. Alla faccia degli smanettoni tristi di internet. La mia visione- lo ammetto- è un po’ edulcorata. Ho vissuto le identiche sensazioni di un bambino a Disneyland, e come tale il mio giudizio finisce per essere poco critico. Forse falsato, ma identico a quello di altri visitatori, allarmati dalle sirene malauguranti che annunciavano sicuri flop, ma che si sono dovuti ricredere, fulminati sulla via di Rho Fiera. Nel mio viaggio milanese ho chiesto a loro, ai milanesi purosangue, cosa ne pensassero dell’Expo, e ho raccolto pareri unanimi, valutazioni positive. Persino gli ipercritici tassisti, il polso da tastare per conoscere gli umori di una città, spesso della pancia di una città, mi hanno regalato caute ma significative opinioni favorevoli. “Guardi- mi rivela Sergio, tassista da meno di un anno- io avrò portato ad Expo solo due o tre turisti, perché i trasporti sono efficienti e la gente preferisce andarci con i mezzi pubblici. Nonostante non mi stia arricchendo riconosco che Expo per Milano è una grande opportunità e lo dico principalmente da milanese. Ci sono stato più di una volta e ho trovato tutto perfetto. Ho portato la famiglia e ora vogliono tornarci”. Si i trasporti, la vera forza di Milano. Per un siciliano come me, che a Palermo deve pregare Santa Rosalia affinché il 101 non dico arrivi puntuale, ma che almeno arrivi, il sistema dei trasporti meneghino è roba da marziani, alieni. La metro ti porta fin dentro il ventre di Expo. Una decina di fermate dal centro del capoluogo lombardo, meno di 15 minuti e si finisce nel cuore della mastodontica area dell’Esposizione. Expo è una grande fiera di paese, soprattutto dopo il tramonto; cibo, musica trash da balli di gruppo proveniente dai padiglioni latinoamericani, una massa enorme di curiosi in sempiterna fila, bimbi armati di sorrisi e palloncini colorati, e un po’ di roba kitsch disseminata qua e là come ad esempio l’arcifamoso “Albero della vita”, imponente monumento alla pacchianeria. Certo mi si potrà obiettare che c’azzeccano, come direbbe il Tonino nazionale, Coca Cola, Mcdonald’s o Etaly in un evento in cui il motto è “nutrire il pianeta”? La presenza delle multinazionali del “food” è molto discreta, nessuna invasione mediatica né alcuna aggressione pubblicitaria; i grossi marchi sono relegati nei propri padiglioni, come i ristoranti di carne argentina, il chioschetto di patatine belga o i camioncini vintage di mini wafer olandesi. Ognuno è libero di tracannare della buonissima birra libanese oppure di riempirsi di bollicine di coca; o ancora di ingozzarsi di mc-panini o di rimpinzarsi di gustosi involtini vietnamiti alle verdure. Le legittime obiezioni di chi vede il bicchiere mezzo vuoto potrebbero moltiplicarsi alla lettura di questo mio scritto; mi si potrebbero rinfacciare le torbide vicende di corruzione che hanno accompagnato l’allestimento dell’area o la faccenda legata ai pagamenti di hostess e steward, con rapporti di lavoro al limite dello sfruttamento. E l’elenco potrebbe allungarsi. Ma il mio resoconto è quello del visitatore privo di pre-concetti, arrivato dall’altra punta dello Stivale e che nulla, alla fine del viaggio tra gli imponenti padiglioni, eccepisce sull’organizzazione, ma anzi (pacchianerie a parte) la promuove, promuovendo persino l’impegno dei siciliani, coloro che al resto del mondo (almeno ai vicini Paesi del Mediterraneo) impartiscono lezioni su cosa significa per davvero l’accoglienza del cibo. Per chi coltiva un po’ di curiosità verso ciò che accade al di là del proprio naso, Expo è la propria Macondo, la città ideale, Gardaland senza l’ebbrezza delle montagne russe. E’ per davvero una gioia per tutti i sensi, ma è soprattutto il miracolo della sintesi: il mondo intero racchiuso in qualche ettaro di terra. Ecco perché il mio consiglio è di spegnere il pc, comprare un biglietto e partire in direzione Milano. Perché l’Expo è una grandissima festa a cui bisogna partecipare. E’ una festa tutta italiana, ma dove è l’intero pianeta il vero protagonista. Dove si respira aria internazionale, e il concetto di universale non è mera teoria. E dove- permettetemi la chiusa campanilistica- la Sicilia fa la sua bella figura. Per buona pace dei gufi di professione.
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