Milano
La fortuna di chiamarsi Expo: ieri scandali e ritardi, domani è un altro giorno
Ritardi. Scandali. Inefficienze. Extracosti molto significativi. Amici, parenti, avvocati di fiducia del potente di turno messi in ruoli chiave. Promesse antiche sepolte, e in ogni caso non mantenute. Politici pigri e distaccati, nel caso migliore, e invece voraci e incompetenti, nel caso peggiore. Manager abili nel galleggiare sulla cresta dell’evento, e già pronti a lasciarlo, usandolo come trampolino verso nuove ambizioni. Un giornalismo spesso addormentato, accondiscendente, che recepisce “notizie” sotto dettatura da parte di un grande finanziatore di stampa e media, suscitando così la reazione sospettosa degli scettici a ragion veduta, e quella rabbiosa dei complottisti di professione. In modo che poi la magistratura divenga l’unico e ultimo baluardo di legalità: sia nello svolgimento del proprio lavoro inquirente e giudicante, sia come serbatoio di figure autorevoli in grado di affiancare e commissariare le funzioni di gestione benedette dalla politica. È la storia dell’Italia di questi decenni, delle infrastrutture non finite, dei Mondiali di calcio o di nuoto, dell’abisso di inefficienza e corruttela dal quale non sembriamo in grado di uscire dall’inizio della cosiddetta Seconda Repubblica. Ed è la storia, almeno fino ad oggi, dell’Expo 2015 che domani inaugura, finalmente, a Milano.
La capitale morale, raccontavamo una volta, il simbolo dell’efficienza del Nord contrapposta a Roma, capitale corrotta di una nazione infetta. Il mito di Milano si è infranto ormai da un pezzo, a spezzarla è stata l’era di Tangentopoli che ha avuto proprio in Milano il suo primo epicentro. Ma anche la manifesta inadeguatezza dei moralizzatori-efficienti milanesi e lombardi che da quella sconfitta sono sorti, come dalle ceneri. La parabola del berlusconismo (e del leghismo delle origini), sconfitti politicamente e giudiziariamente, cioè sul piano della maggior moralità e della miglior efficienza, sono stati tra l’altro la pietra tombale sulla retorica che voleva la rinascita di una classe dirigente a partire, appunto, da Milano. Quando nasce l’idea di Expo e quando il Bie decide di assegnarlo a Milano, a fare il sindaco c’era Letizia Moratti, in regione un trionfante Roberto Formigoni, al governo Romano Prodi pronto, a breve, a cedere nuovamente il posto a Silvio Berlusconi e al suo nuovo trionfo del 2008. Expo nasce sotto una stella, insomma, che oggi è completamente tramontata. Tanto che sul paese regna, per ora senza alcuna alternativa credibile, la stella definitivamente post-berlusconiana di Matteo Renzi, mentre l’onda di reazione agli anni berlusconiani rappresentata da Pisapia si ritira dalle scene, a Milano. Una città che oggi si ritrova, però, capitale d’Italia per sei mesi, baciata dall’opportunità di far crescere il prodotto interno lordo “stando ferma” e con il dovere e l’opportunità fortunata di far dimenticare, mentre l’Expo arriva e avanza, di come a questa Expo siamo arrivati.
Una storia che non possiamo dimenticare noi, però: perché ci serve per guardare con realismo a questo Expo, al futuro dell’Italia che non dovrebbe rinunciare a orgnizzare eventi perché il passato è lastricato di brutte figure, e al futuro di Milano che, sia come sia, dopo questa Expo non sarà più la stessa: e già si vede oggi a occhio nudo. Abbiamo visto tutti una storia piena di cambi di rotta, cambi di uomini, sprechi di soldi, cattiva organizzazione. La leggenda racconta di una Expo concepita, inizialmente, da Carlo Petrini e dal suo mondo Slowfood come una grande occasione per radunare culture e produzioni alimentari tradizionali, biologiche, “buone, pulite e giuste”, come indica il motto della ditta. Tutto torna, perché Expo ha preso tutt’altra strada, allontanandosi da quella via per imboccare la strada della grande operazioni immobiliare “pesante”: però nel cuore del villaggio, dopo diverse polemiche, c’è quell’Oscar Farinetti con la sua Eataly che, per quanto poco se ne parli, prima di essere lo sponsor più rampante del decisionismo renziano è anche il cugino “business oriented” del mondo Slow Food.
Un grande evento che mentre prometteva di riflettere su come “nutrire un pianeta” – ambizione altissima e bellissima – è arrivato in ritardo assoluto su tutto, in modo scomposto, antieconomico, spesso dosorganizzato. Del resto, restano indimenticabili al di là di ogni rimozione, i primi anni di tempo perso, manager passati e inghiottiti assieme alle loro liquidazioni, programmi enormi di infrastrutture connesse e collegate, e poi infine derubricate a realizzazioni future. Così si è arrivati al plenipotenziario Giuseppe Sala, “Beppe” per i molti che si definiscono suoi amici, borghese milanese, manager di Pirelli e Telecom, quindi Marco Tronchetti Provera, uscito pulitissimo da ogni vicenda e sfortuna, uomo di fiducia della Moratti ma accreditato da tutti di essere “di sinistra”, già allora. Un tempo frequentatore di Stefano Boeri, candidato alle primarie dal Pd contro Pisapia, e subito dopo sintonizzatissimo con “Giuliano”: soprattutto dopo che Pisapia aveva vinto a sorpresa il primo turno contro Letizia Moratti nel 2011.
Gli extracosti di Expo, ultimo degli episodi negativi degni di nota, sono stati di recente raccontati in una bella inchiesta pubblicata da La Repubblica. I ritardi e le rincorse sono noti a tutti, come gli scandali, il round di inchieste, e le ultime brutte figure nazionali e internazionali coi giornalisti delle tivù estere e con “rivelazioni” frettolose e prese per buone con faciloneria dal Corriere della Sera sul fatto che molti giovani “fannulloni” avevano rifiutato ponti d’oro per Expo, salvo poi scoprire che la storia era, ovviamente, più complessa e non riassumibile col manicheismo che fa tanto titolone e distrae volentieri tutti dalle magagne del management. In modo da dimenticare ad esempio le interviste di esordio di Giuseppe Sala come commissario unico, quando prometteva che sarebbe stato tutto pronto per la fine del 2014, e che i primi mesi del 2015 sarebbe serviti solo per i collaudi e i test sulla sicurezza, in ogni senso. Parole, sepolte da una montagna di altre parole, dall’arrivo salvifico di Raffaele Cantone, voluto da Renzi come taumaturgo sommo di ogni male dell’etica e della legalità dopo che un anno fa era scoppiato l’ultimo scandalo, che aveva travolto Paris, manager di punta della struttura. Cantone era arrivato di corsa a commissariare Milano, ovviamente con l’obiettivo di mettere cerotti e rattoppi su un Expo martoriato dalle indagini per consentire all’Expo di essere e di arrivare in qualche modo a questo primo di Maggio.
E alla fine, la risorsa più importante di questo Expo, resta pur sempre Milano. Una città con mille difetti, una terra di mezzo con tanti limiti e buchi, ma anche il luogo che ha per tradizione la capacità di essere accogliente con chi arriva per portare idee, forza, valore, senza mai sbilanciarsi in smancerie con nessuno. La città che ha dovuto riconoscere di non essere superiore a nessuno, ma che sa, e non può dimenticarsene, che o funziona, o non ha senso. E infatti, nonostante tanti buchi e baghi, Milano in fondo funziona, continua a fare cose nuove, a processare cose diverse da sé, ad attrarre intelligenze, a germinare futuro. Così sarà, può essere, per Expo. Nonostante chi l’ha mal gestito, chi non ha saputo tenere lontani i malintenzionati (clamoroso a ripensarci il caso di due notissimi pregiudicati per reati contro il patrimonio pubblico come Greganti e Citterio), nonostante i raccomandati, gli extracosti, e tutti il resto, a questo Expo ci siamo arrivati e Milano, tra tante occasioni perse, sa che è un’occasione da non perdere. La Milano di domani, cioè un pezzo importante d’Italia, nascerà da qui.
Non è un caso se, al solito nonostante tutto, per il dopo Pisapia continua a girare insisitente, pressante, un nome di candidato che metterebbe fino alla contesa: proprio quello di Giuseppe Sala, che già era venuto a galla per qualche giorno, qualche anno fa, quando c’era da scegliere il candidato per le regionali poi vinte da Maroni. Proprio sulle colonne del Corriere della Sera, testata milanesissima e sempre gentile con Sala, è uscito nel pieno dei ritardi delle ultime settimane, un articolo che raccontava di come – addirittura – il Pd sarebbe in spinta per convincerlo ad esserci. Il resto lo farebbe un Expo anche di solo discreto successo, coi ristoranti pieni e i commercianti e i taxisti contenti. Sala candidato sarebbe la cosa più facile, forse la più banale, certo non la più brillante. Soprattutto, vorrebbe dire ammettere che la politica non abita più a Milano e che basta un evento cui si è arrivati col fiatone per “scomodare”, ancora una volta, l’antica categoria della società civile. Non ha mai portato grande fortuna, a dire il vero: ma anche a Milano, evidentemente, abbiamo la memoria corta e la fantasia in affanno.
O no?
(Foto del cantiere Expo di Filippo Romano, scattate all’inizio di Aprile 2015)
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