Milano
Ernesto, 70 anni, una vita di periferia
“Dove finisce Milano” è un podcast originale di Jacopo Tondelli, prodotto dal Centro Martini nell’Università Bicocca, che ogni settimana vi arriva grazie alla voce di Federico Gilardi. Nelle ultime puntate abbiamo parlato in vario modo della politica milanese, dei politici che hanno fatto la storia recente della città, e del decreto “Salva Milano”, un provvedimento d’emergenza pensato per sistemare un grosso problema amministrativo e giudiziario che fa tremare la fiorente industria milanese dell’immobiliare – o della speculazione immobiliare -, nonché la politica e la macchina amministrativa. Al cuore dei discorsi politici che riguardano Milano c’è in fondo sempre la parola “casa”, e ce ne si accorge anche meglio quando capita di passare qualche settimana in periferia, dove davvero finisce Milano. Qui sotto potete leggere o ascoltare qualche fotogramma, credo significativo, che ho raccolto al confine nord-est di Milano.
Attorno la città ha il suono delle strade a scorrimento veloce. La tangenzialina di Via Palmanova, che porta allo svincolo della tangenziale vera, “la est”. La mattina, quando da quel lato spunta il sole verso le cinque, sono solo Tir che arrivano dalle Venezie, o ci vanno, portando chissacosa chissadove. Sempre da quel lato, si vede l’architettura bizzarra e megalomane di una cupola vitrea, il San Raffaele di Don Luigi Verzè e Silvio Berlusconi, non necessariamente in quest’ordine. Milano 2, gli studi di Mediaset a Cologno, Via dell’Olgettina. Tutto a tiro di sguardo, guardando verso fuori. Verso ovest, la ferrovia della linea metropolitana che corre verso lo hinterland o il centro. E seguendo questa direzione, poco lontano, Porta Nuova, il Bosco Verticale e perfino il Duomo e la Torre Velasca nitide, per quanto consentito dallo smog e dal caldo.
Al piede di un palazzo nuovo, l’unico palazzo nuovo su un viale di periferia che corre verso le autostrade, c’è un bar. Un bar carino, che potrebbe anche essere in centro, o comunque più in centro. L’altro esercizio commerciale attivo, al piede del palazzo nuovo, è un’enorme farmacia. Per trovare qualcosa d’altro che sia un aperto al pubblico, è necessario camminare diverse centinaia di metri di giorno, e più di un chilometro appena scende la sera, anche d’estate. Il palazzo residenziale nuovo è circondato da case popolari di varie epoche. Dall’altra parte della strada c’è la sede di un’importante azienda milanese. La metropolitana più vicina è a circa 700 metri, per raggiungerla bisogna costeggiare i binari tra parcheggi e giardini. Non sembra onestamente pericoloso, se non fosse che non c’è quasi mai nessuno. Premetto che tutto questo, per me, suona familiare e congeniale, sento che mi somiglia e mi ci trovo perfettamente a mio agio. Detto questo, fatico a immaginare una rappresentazione più precisa di quel che intendiamo per “periferia”.
Inevitabilmente, infatti, il bar è diventato in pochi mesi il punto di riferimento di molta gente che frequenta e vive la zona. Di chi lavora nell’importante azienda di là dalla strada, per pranzo. E del vario popolo di chi abita quaggiù. Uno dei camerieri – faccia sveglia, accento del centro italia – chiama per nome uomini e donne di vario tipo. “Studio, e lavoro per poterlo fare. Vivo in affitto con la mia ragazza, sono sempre al pelo coi soldi. Lo so che non è colpa di Milano, ma mi chiedo che senso abbia vivere per lavorare e per laurearsi fuori corso. Quando avrò finito mi diranno che sono vecchio, ma non potevo laurearmi giovane dovendo mantenermi da solo, no?”. Mentre chiacchieriamo arriva un anziano, sdentato, e sorridendo e strizzando l’occhio mi dice: “adesso lo faccio arrabbiare”. Finge di volere ordinare un caffè, e alle otto di sera il bar si prepara a chiudere, la macchina del caffè è già pulita e spenta. Io chiedo, e lui racconta la sua storia. “Vivo qui da quando avevo dodici anni”, e indica una grande stecca di case popolari proprio accanto al bar. “In origine ci vivevamo in quattro, papà, mamma, io e mia sorella. Non eravamo di questa parte di Milano, sono nato alla Mangiagalli e quando son venuto al mondo vivevamo in zona sud. Ma poi siccome mia mamma e mio papà dovevano lavorare a tre anni mi han mandato da mia nonna, in provincia di Pavia, e poi in collegio, sempre nella bassa. Mamma com’erano cattive le suore… a una ho detto: meno male che hai sposato il Signore, era l’unico che poteva volerti!”. È un fiume in piena. Un fiume gonfio ma gentile, che chiede ascolto ma sorride a chi glielo dà. Racconta le storie crude del quartiere, di famiglie intere che vivono di spaccio, e usano i bambini per portare la droga. Di ripicche tra vicini fatte di calunnie e infamie tremende, per vecchie questioni, o per nessuna questione che non sia la povertà della rabbia, o la cattiveria verso gli unici che hai a tiro. Gente sfigata, come te.
“Ho assistito mio papà fino alla morte, con lui potevo. Ma quando si è ammalata la mamma, aveva anche una demenza oltre al parkinson, come facevo a lavarla? È una questione di rispetto, non potevo. Così l’hanno ricoverata, e mi hanno però tolto la casa in cui stavamo. Era un quadrilocale e costava 260, ora sto in un bilocale da solo, e costa 300. Di pensione prendo 900 al mese, me la cavo, dai”. Indica un’altra stecca di case popolari, quella in cui vive ora. “Volevo studiare perito meccanico, ma a casa non c’erano proprio soldi. Così a 14 anni, nel 1968, sono andato a fare il garzoncino in gastronomia. Quando mi hanno promosso a garzoncino lavapiatti mi sembrava di toccare il cielo con un dito. Ho lavorato quarantasei anni, adesso ne ho settanta e sono in pensione da nove. Prendo pochi soldi ma li tengo da conto, vedi come sono ordinato, coi vestiti stirati, con la doccia sempre fatta?”.
Ernesto. 70 anni. Una vita intera in periferia.
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