Milano

Emilio Genovesi e le nostre verità

5 Febbraio 2021

Ho detto poco e male.
Avrei voluto fare di più: celebrare la sua golosità a tavola; ricordare le risate sguaiate e perfide; commentare la meiosi in politica che da civismo – sua recente passione – fatica a diventare metodo e linguaggio; dirci, con la franchezza che gli apparteneva, che potevamo anche soprassedere con le cerimonie e sorseggiare un vin brulè tutti insieme.

Ho detto poco e male al commiato laico dell’amico Emilio Genovesi, che si è tenuto martedì nello splendido scenario del Teatro Burri, al parco Sempione.

Sarà stato il freddo, la scighera che si stava levando con la sua umidità che confondeva l’altra – quella salata – che invece scaturiva dagli occhi, oppure sarà stata più semplicemente la consapevolezza di poter dire poco e di minor senso rispetto ai ricordi di amici, colleghi, parenti.

In questa era della delusione cocente, dove (grazie anche al Covid) stiamo perdendo punti di riferimento con una velocità mai vista prima, la socialità spontanea di un commiato funebre mi ha fatto un gran bene.

Abbandonare l’ostilità aggressiva, la frustrazione delle mascherine, l’afasia dei sopravvissuti, la fola stravagante dei commentatori TV per riscoprire parentele o liaisons.

Ho visto rappresentato l’alfabeto culturale di Emilio con tale cura dai suoi protagonisti da riuscirne inebetito: la sua storia politica, quella professionale, quella dell’intelligenza acuta e del garbo e della predittività, spesso al servizio della comunità.

Eppoi ho visto i mille suoi mondi ricordarlo – centrati, lucidi e fieri – con atto di memoria sociale da radicarsi nuovamente e saldamente al presente. Un momento identitario di rara potenza che mi ha lasciato con la mia nescienza sgomentevole ma esaltato. Fiero di averlo conosciuto e – insieme a lui, con lui – di aver rivisto la qualità morale di Milano non più solo approssimativamente umana ma culturale, sociale, politica.

Una folata di vento che ha alzato e allontanato il sudario: ne sarebbe andato fierissimo lo stesso Emilio che – son certo – avrebbe gustato parola per parola, sintassi per sintassi, con quel suo ‘sorriso diagonale’ (ma quanto è bella la definizione data da Stefano Boeri!).

Nessuna iperbole. Nessuna chiosa stonata. Nessun fastidio per cose perse o di lassù. Nessuna calcificazione. La città che c’è e che si è ritrovata attorno ad uno dei suoi recenti protagonisti silenziosi e cauti.

Emilio, il direttore generale di Domus Academy, conferenziere in Francia, Germania, Svizzera, Olanda, Svezia, Norvegia, Turchia, Giappone, Cina, Corea e Hong Kong sul design e sulla strategia di impresa, curatore di una rubrica dedicata sull’inserto Nòva24 del Sole 24 Ore, project leader del Biodiversity Park, padiglione tematico in Expo Milano 2015, CEO di Material ConneXion Italia e, dal 2020, di Materially, presidente della “Commissione di studio per l’individuazione di politiche pubbliche di supporto e sviluppo del design” nominata dal Ministero dei beni culturali, e tante altre vite che si dilatano fino ad Avanguardia operaia e al Pdup.

Poi le lacrime, d’accordo. Ma che miracolo quest’ultime.

Contengono ormoni dello stress e un oppioide che funziona da anestetico: attenuano il dolore svolgendo una funzione curativa. Mi mancavano anche quelle, con il loro sapore, il calore seguito poi dall’inevitabile freddo, il senso di umido.

Anna, Martina, Francesco.

Siete (siamo) stati fortunati a vivere un tratto del vostro (del nostro) cammino comune con Emilio. Ecco sì, questo sono riuscito a dirlo e con convinzione.

Lontano da necrologi e istinti imitativi, chiedo solo una cosa: di proteggere le nostre verità, le nostre identità, senza nessuna voglia di servitù e con tanto protagonismo: così ci insegna Milano, così ci insegna il futuro che non attende mai, così avrebbe voluto Emilio.

 

«E questo è il sonno…» Come lo amavano, il niente,

quelle giovani carni! Era il ‘domani’,

era dell’‘avvenire’ il disperato gesto…

Al mio custode immaginario ancora osavo

pochi anni fa, fatuo vecchio, pregare

di risvegliarmi nella santa viva selva.

 

Nessun vendicatore sorgerà,

l’ossa non parleranno e

non fiorirà il deserto.

 

Diritte le zampette in posa di pietà,

manto color focaccia i ghiri gentili dei boschi

lo implorano ancora levando alla luna

le griffe preumane. Sanno

che ogni notte s’abbatte la civetta

affaccendata e zitta.

Tutta la creazione…

Carcerate nei regni dei graniti, tradite

a gemere fra argille e marne sperano

in uno sgorgo le vene delle acque.

 

Ma voi che altro di più non volete

se non sparire

e disfarvi, fermatevi.

Di bene un attimo ci fu.

Una volta per sempre ci mosse.

Non per l’onore degli antichi dèi,

né per il nostro ma difendeteci.

Tutto ormai è un urlo solo.

Anche questo silenzio e il sonno prossimo.

 

Volokolàmskaja Chaussée, novembre 1941.

«Non possiamo più, – ci disse, – ritirarci.

Abbiamo Mosca alle spalle». Si chiamava

Klockov.

 

Rivolgo col bastone le foglie dei viali.

Quei due ragazzi mesti scalciano una bottiglia.

Proteggete le nostre verità.

 

COMPOSITA SOLVANTUR

Franco Fortini, 1994

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