Milano
E un giorno Pisapia parlò, finalmente, del dopo-Pisapia
Ormai non si poteva più aspettare. O forse si poteva ancora, chissà, ma la pazienza era un bene scarso e le sue riserve, a Milano, nella piccola Milano di quelli che decidono o credono di decidere chi comanda, erano ormai pronte all’esaurimento. Pisapia aveva un bel dire (e far dire) che fretta di sciogliere le riserve sul suo futuro non ce n’era. Che tanto gli avversari ancora non erano così organizzati e non avevano un nome vero da candidare a sindaco. Che l’annuncio di un suo eventuale passo indietro avrebbe aperto la strada alla guerra fratricida, la solita, all’interno del centro-centro sinistra milanese. Il martellamento sul sindaco era iniziato ormai da un pezzo, e aspettare davvero non si poteva più.
Quando arrivò la notizia che in un tiepido martedì mattina della primavera milanese era convocata una conferenza stampa dal gabinetto del sindaco, alla presenza del sindaco, ma senza ulteriori specifiche di temi e argomenti da trattare, tutti capirono che l’ora x era arrivata. E tutti, naturalmente, avevano la loro certezza: sul cosa e sul perché il sindaco avrebbe convocato e, soprattutto, sul prima e sul dopo di quella comunicazione. Il fine settimana passò veloce, come succede a Milano nei mesi, meglio sarebbe dire nelle settimane, in cui il clima è amico della città e di chi la vive. Il lunedì i protagonisti – o i comprimari che volevano diventarlo – scaricarono a terra tensione e preoccupazioni, aspirazioni e proiezioni. C’erano quelli che fin dall’inizio avevano voluto e sperato in un cambio al vertice. Erano quelli che, in fondo, avevano lasciato da tempo intendere a Pisapia che era meglio per tutti se accettava di buon grado di non ricandidarsi. Erano i renziani della prima ora, al massimo della prima ora e mezza. Erano stati in buona parte allievi politici di Filippo Penati, o comunque si erano fatto le ossa negli anni in cui l’ex sindaco di Sesto San Giovanni sembrava l’unica risorsa possibile per una “sinistra” (virgolette d’obbligo) milanese vincente. A Pisapia lasciavano intendere che era meglio che si ritirasse.
A Roma, a Renzi e a Lorenzo Guerini, da tempo spiegavano che Pisapia non sarebbe stato in campo, e che quindi era il caso di chiedergli in fretta chiarezza. La richiesta arrivò anche, in effetti, ma la fretta del sindaco e la loro, evidentemente, non erano sinonimi. A questo gruppo erano iscritti sicuramente il segretario metropolitano Pietro Bussolati, l’assessore Pierfrancesco Maran, il segretario regionale Alessandro Alfieri, la parlamentare Lia Quartapelle che i soliti bene informati vedevano come la più candidabile tra i pur vari candidabili. Sul modello della coalizione nazionale, naturalmente, erano prontissimi a governare con gli uomini di Alfano e, soprattutto, con quelli di Comunione e Liberazione, rinunciando senza troppe nostalgie alle pedanterie di Basilio Rizzo ma anche a quel pezzo di sinistra milanese di base che era invece portatrice di istanze più sociali. Nel gruppo c’erano diversi pezzi di sergeteria e consiglio comunale milanese di area. Quel lunedì fu tutto un rincorrersi di telefonate e sms, la certezza granitica, nel giro, era quella di sempre: «Ha deciso da mesi, non si ripresenterà, e noi siamo pronti». A governare meglio, a prendere finalmente il potere? Si sa, in questi casi vero e percepito, pensato e dichiarato, si sciolgono sempre in sfumature di grigi e di rossi che le famose cinquanta, alla fine, sembrano sempre troppo poche. Quel che può succedere, piuttosto, è che le sfumature del proprio pensiero finiscono con il creare attorno una coltre un po’ troppo densa, e si perda di vista la complessità della realtà, o la possibilità che essa si stia formando in modo diverso da quel che si vorrebbe.
Non erano gli unici a essere pronti, in realtà, anche se erano di certo i più convinti. Erano pronti anche nella sua giunta, all’inizio di un dopo-Pisapia. Qualcuno poteva ragionevolmente ambire ad un’eredità dell’esperienza della giunta. Era il caso dell’assessore al Welfare Pierfrancesco Majorino, che pure al giro precedente aveva in prima battuta sostenuto la candidatura ufficiale del Pd, quella dell’architetto Stefano Boeri, ma negli anni di Pisapia si era ritagliato uno spazio notevole. Nella gestione del welfare, ma anche nelle campagne per i diritti civili. Aveva sempre rivendicato esplicita fedeltà a Pisapia, ma qualora fosse stato il sindaco a fare un passo indietro… Aveva amministrato per anni un assessorato delicato, ma ad alto potenziale di dividendo elettorale, soprattutto in epoca di crisi, ed era abbastanza di sinistra da fare paura a qualunque candidatura istituzionale nel caso in cui – come ogni regolamento del partito prevedeva – il nome del candidato fosse dovuto uscire dalla lotteria delle primarie.
C’erano poi le candidature di matrice romana, o comunque politicista. Qualcuno, ancora obnubilato dal mito di un’improbabile società civile, lasciava intendere che nel caso i nomi di Ferruccio De Bortoli, Mario Calabresi o perfino Beppe Sala, a.d. di Expo, sarebbero potuti tornare buoni, in caso di defezione di Pisapia. Nomi figli di uno schema che era andato di gran moda, nonostante pochi successi, durante gli anni Novanta: il gioco, lo avrete capito, era quello del “papa straniero”.
Più serie erano le candidature espresse direttamente dal centro di un Partito democratico davvero egemone, come quello figlio della politica e dell’antropologia renziana. I nomi erano due: Emanuele Fiano, presidente commissione riforme, a Roma, e già capogruppo cittadino del Pd a Milano ed ex presidente della comunità ebraica, e Maurizio Martina, ministro dell’agricoltura. Per il primo, un ritorno a Milano sarebbe stata la più auspicabile delle investiture a livello nazionale, dopo che la porta dei ministeri, prima con Letta e poi con Renzi era rimasta chiusa sul più bello. L’opportunità milanese, dunque, era tanto ampia quanto rischiosa e lui, uomo prudente, lo sapeva bene. Il caso di Martina era diverso. Un Expo milanese a tema vagamente agricolo era sicuramente un’opportunità di visibilità e radicamento, per un ministro dell’Agricoltura più noto nelle stanze della sinistra lombarda e nazionale che non nelle case dei milanesi. Ma nelle ultime settimane l’idea che fosse Matteo Renzi in persona a puntare su di lui prendeva corpo e voce. Cresceva, giganteggiava. Vero o falso? Era questione di pochi giorni, forse settimane, e tutto si sarebbe chiarito. Anche perché quella mattina – ormai sarà a tutti chiaro – tutti attendevano la conferenza stampa di Pisapia come la conferma lungamente attesa della sua intenzione di non ricandidarsi, e di lasciare il campo alla battaglia per la successione. Nessuno aveva evidenze, ma tutti giuravano certezze.
Pisapia si avviò verso la sala della conferenza stampa e quando fu a pochi passi si fermò, guardò la moglie con il sorriso pestifero che ogni tanto gli viene e disse: «Sai che risate ci facciamo se adesso entro e dico che mi ricandido?». Nello stesso momento, in altro palazzo, con altri velluti e analoghe grammatiche, pensava a Milano anche Matteo Renzi. Aveva preparato in bozza un testo. Anzi due. Il primo diceva: «Grazie @giulianopisapia, sei stato grande sindaco, ora tutti al lavoro per una Milano e un sindaco del futuro alla tua altezza». Il secondo diceva: «@giulianopisapia, grande sindaco di ieri e di domani: tutti al lavoro per continuare a governare con lui a Milano».
Pochi minuti, e avrebbe twittato quello giusto.
(Illustrazione di copertina, Thomas Libetti per Gli Stati Generali)
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