Milano
E adesso occhio, Matteo, perché a Milano non vince il primo Pd che passa di lì
Ignorare il Pd, non considerarlo meritevole di una comunicazione condivisa, è stato l’ultimo schiaffo di Giuliano Pisapia alla politica che intende sottometterti alle sue logiche, quella che vuole determinare la tua vita al di là e al di sopra dei tuoi stessi sentimenti. Una scelta chirurgica e anche un po’ perfida nell’atto finale del suo mandato. Peraltro quel Partito Democratico che non lo aveva scelto, semmai subìto, e che ancora pochi mesi fa pretendeva con una certa sicumera dati certi sul suo futuro. I signori sono serviti.
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Milano ora è libera. Libera per essere (ri)occupata da quella politica che ha sofferto maledettamente la privazione meneghina di questi anni, l’esproprio borghese/proletario di un avvocato perbene nei confronti di quelle logiche perverse che avevano portato i partiti al minimo storico della considerazione collettiva. Se c’è un merito evidente di Giuliano Pisapia, ora che è tempo di primi bilanci, è l’aver riavvicinato i milanesi all’istituzione cittadina, costruendo la sua dimensione politica su quel senso (molto percepito) di distacco da una certa politica. Un distacco, quasi sublimato nel sussiego, che non ha mancato di sottolineare nel corso di questi anni.
Non crediamo che Matteo Renzi sia così contento di aver perso Pisapia, anche se grande amore non era. E gli diremmo di non stappare nulla, neppure il noto analcolico giallastro, per la poltrona ritrovata che ora, con tutta probabilità, profumerà di Partito Democratico (almeno come candidato). E per un paio di ragioni discretamente chiare anche a una persona sicura di sé come il nostro premier. La prima è che il bouquet dei candidati interni, a ragionar sui nomi fatti, è pieno di motozappe che non vinceranno mai (sempre che dall’altra parte mettano qualcosa di più vivo di una mummia). Si fa un gran parlare di Fiano, Quartapelle, Martina, Maran, Majorino, e altri valorosissimi funzionari che nessun milanese di buona volontà porterebbe mai nel cuore sino al punto da mettere una croce su quel nome. E questo per quella fastidiosa sensazione di essere etero-diretti dall’apparato, per nuovo e scintillante che sia quello dell’era renziana rispetto alla vecchia e cara ditta comunista. Il secondo motivo, legato al primo, è che una città come Milano, da sempre la più europea e in tempo di Expo addirittura proiettata nel mondo, avrà la necessità di volare altissima. Diciamo almeno alta, per non illudersi troppo.
Qualche giorno fa ci siamo presi le nostre rampogne per avere paradossalmente immaginato delle primarie del Pd allargate anche a destra. Il senso non era affatto provocatorio, come qualche zelante ufficiale piddino ha voluto interpretare. Semmai era un atto d’amore nei confronti di una città che non poteva restringere quel consenso cittadino così imponente al semplice elettorato di una parte. Si diceva in quel pezzo: il Pd si faccia portavoce di una grande campagna, nella quale chiede pareri, consigli, indicazioni sui nomi a tutti i cittadini, non solo ai suoi stretti elettori. Un’operazione così scandalosa? A maggior ragione oggi, con l’addio di Giuliano Pisapia, l’idea ci pare sostenibile e non più semplicemente come ballon d’essai ma esattamente come orientamento responsabile, nel segno del massimo rispetto nei confronti della cittadinanza.
Occhio alla destra, che è sì allo sfacelo ma che peggio di così non può fare. La destra è un territorio largo, molto largo, per il momento occupato da nessuno. Tale, per esempio, è la sostanza politica di Mariastella Gelmini, che qualche giorno fa, nell’infuriare dello scandalo, ostentava il suo ottimistico senso del nulla, proponendo ancora la candidatura di Maurizio Lupi a sindaco di Milano. Ecco, capirete che se la destra è questa vince anche un gatto di sinistra.
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Occhio a Salvini, che se non altro è sveglio. Occhio perché il tipo potrebbe guardare furbescamente oltre, proprio a un candidato della società civile, come fu Pisapia all’epoca, proteggendolo magari sotto una lista civica (perché sotto il simbolo della Lega, nessun professionista affermato correrebbe mai). E allora pensate a uno scenario: l’Expo, dopo tante tribolazioni, va a finire bene. E il suo amministratore delegato chiude senza neppure un misero avviso di garanzia. Non sarebbe, Beppe Sala, un candidato spendibile? E in ultimo: tra Beppe Sala ed Emanuele Fiano, voi chi votereste?
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