Milano
Dove finisce Milano – Una città in carne e ossa liberata dalle opposte retoriche
Milano è sempre stata protagonista dei cambiamenti dell’Italia. Oggi sembra sospesa tra due destini opposti: la città di successo che guarda all’Europa, o la bolla distante e un po’ arrogante che perde il contatto con il proprio paese. Ma come sta davvero Milano? Cosa succede nella superficie e nelle viscere della città e dei suoi abitanti? Dove finisce Milano è un podcast originale di Jacopo Tondelli, prodotto dal Centro Martini nell’Università degli Studi di Milano Bicocca.
Questa qui sotto è la prima puntata che potete ascoltare e leggere.
Mi occupo di Milano da quando ho iniziato a scrivere sui giornali, nel 2003. Da molto prima, però, Milano ha iniziato a occuparsi di me, visto che ci sono nato nel 1978. In questi quarantacinque anni abbondanti questa città ha attraversato tante fasi della storia dell’Italia e del mondo, epoche molto diverse tra loro. È stata protagonista di cambiamenti, alcuni li ha subito, molti li ha anticipati. Quasi sempre, del resto, le cose importanti che succedono nel nostro paese si sono viste all’opera prima da qui. Sono successe qui, oppure qui si sono manifestate con particolare chiarezza. È un po’ questo il destino che Milano ha ereditato e si è costruita da ben prima di oggi, perfino da ben prima del 1978. Pensate al Risorgimento o al Fascismo, per citare due pagine fondamentali della storia del nostro paese. Pensate al terrorismo e alla violenza politica, alla strage di Piazza Fontana, alla Milano da Bere, a Mani Pulite e Tangentopoli, all’ascesa imprenditoriale e politica di Silvio Berlusconi, probabilmente il più influente italiano degli ultimi 50 anni. Una città geograficamente ed economicamente “al centro”, che porta quel suo essere “in mezzo” anche nel nome, è del resto naturalmente destinata ad anticipare opportunità e crisi, nevrosi e soluzioni, innovazioni e distruzioni. A mostrare con chiarezza e brutalità il cambiamento di pelle di una società, di una nazione, di un modello di sviluppo, perfino della Chiesa Cattolica: da Sant’Ambrogio, fino a Carlo Maria Martini. Sogni, crisi, disastri, riforme, controriforme ed estasi passano da qui. Non è un caso che anche adesso, proprio adesso, nel mezzo di un’epoca di cambiamenti epocali e di incertezze che sembravano inimmaginabili, si faccia un gran parlare di Milano. Fino a qualche anno fa la si prendeva a “modello”, emblema della città di successo, attrattiva, dinamica, efficiente ma anche solidale. Poi, è cambiato il vento. Sarà stato il Covid, che ha lasciato in molte memorie la traccia inconscia della reclusione in pareti troppo strette di case troppo piccole, mentre erano vietati parchi e aperitivi. E sarà stata l’inflazione arrivata subito dopo, per tante ragioni, che ha mostrato che la “vita sempre al limite” di prima era già, in realtà, oltre il limite sostenibile per molti.
Così, il “modello Milano” si è retoricamente capovolto nel “disastro Milano”. Una città insostenibile ambientalmente, economicamente, lavorativamente. Esistenzialmente. A una versione estremamente ottimista ed entusiasta che per anni aveva raccontato Milano come “il place to be” – il posto in cui essere, secondo l’enfatica definizione del New York Times -, se n’è contrapposta una di segno opposto, e non è forse un caso che al dilagare della pandemia, sul Wall Street Journal, cioè sempre da New York, si raffigurasse una lugubre Piazza del Duomo deserta.
Nel mezzo dei racconti contrapposti, naturalmente, si distende la terra della realtà, che – a Milano più che mai – è una terra di mezzo. Una terra che mescola e tiene insieme contraddizioni, opposti, opportunità, delusioni. Che sintetizza e vive dinamiche più grandi dei suoi confini, che vive spesso di decisioni prese e di sensibilità coltivate altrove. Milano è questo, e di questo e di molto altro è fatta la gente che la vive. Già, la gente che la vive. Chi sono i milanesi, i pochi originari nativi, i tanti arrivati per rimanere, i tantissimi che provano a diventarne parte e chissà come andrà a finire? Quelli che comprano casa, quelli che strappano affitto e mutuo a uno stipendio da fame – coma cantava Guccini nel 1993, all’inizio della depressione da Tangentopoli -, quelli che la considerano economica e facile, perchè sono piovuti a Milano da Londra? E le seconde e terze generazioni, e quel mare di cinesi che in pochi decenni sono usciti dal loro ghetto per conquistare pezzi di città, vendendo sigarette e comprando interi palazzi?
Di Milano si parla sempre più spesso come fosse un’entità astratta, quasi metafisica. Senza dati, senza numeri. Insomma, senza conoscerla. La si ama e la si odia, la si racconta e la si riduce a stereotipo, anche perché aggrapparsi ai corpi grossi delle megattere fa vedere la luce anche alle conchiglie dei fondali. Ma Milano esiste nella realtà e nella storia, come tutte le città, e forse anche un po’ di più. In questo viaggio “nella disfatta pancia di Milano” – per prendere a prestito il verso di uno straordinario viaggio poetico tra due secoli, tra due millenni, di Giovanni Giudici – frugherò appunto nelle viscere della città, nei cocci della sua immagine e nelle pieghe della sua sostanza. Conterò le sue genti, il suo lavoro, misurerò le sue fatiche, i suoi successi, il tragitto che fa diventare autoctoni i forestieri, e fa sentire straniero chi ci è nato. Proverò a disegnare il confine dei meriti e dei bisogni, della malattia e della cura, a pesare il prodotto interno lordo e la felicità, e il suo contrario. Cercherò di misurare la mia città palmo a palmo, a guardarla da lontano per vederne l’insieme, e poi da molto vicino, perché sono le vite degli umani che fanno una città. Insomma, proverò a raccontare Milano al di là del mito, dell’invaghimento e del pregiudizio, ricordando che anche lei, come ciascuno di noi, sta dentro a una storia più grande. Senza di essa non si capisce nulla di niente, ma senza le vite di ciascuno non si costruisce alcuna storia, e nemmeno una città.
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