Beni comuni
Demolire San Siro significa demolire un monumento: parliamone, laicamente
Proprio nel giorno dell’assegnazione delle Olimpiadi invernali a Milano e Cortina, il presidente dell’AC Milan Paolo Scaroni ha dichiarato: “Faremo insieme (FC Internazionale e AC Milan) un nuovo San Siro accanto al vecchio […] Il vecchio verrà buttato giù e al suo posto ci saranno nuove costruzioni” e poi, subito tendendo la mano, “Sarebbe bello che la cerimonia delle Olimpiadi si facesse nel nuovo San Siro, ma non ne siamo certi”.
Sarebbe semplice dire che le due società, a nome delle quali parlava Scaroni, vogliono demolire una cosa che non possiedono, e che vorrebbero addirittura farlo con i soldi di tutti (“sarebbe bello”), ma il punto non è questo. Per impostare più correttamente la questione bisogna chiedersi cos’è San Siro e capire così come valutare la sua possibile demolizione.
San Siro è un monumento.
Un monumento è anzitutto un investimento economico; in secondo luogo è una riflessione intellettuale su quello stesso investimento (una riflessione che si sviluppa come lavoro sulla forma), infine è un investimento emotivo di una comunità che si appropria di un luogo celebrando i suoi riti. Nei vari monumenti questi aspetti si compongono in vario modo: per restare a casi milanesi è evidente che il Duomo è soprattutto un investimento economico ed emotivo e che Santa Maria delle Grazie è soprattutto un esercizio intellettuale. Alcuni edifici nascono da subito per essere monumenti (il Duomo, ovviamente), altri lo diventano pur avendo un’origine puramente funzionale (la Stazione Centrale, ad esempio). San Siro è chiaramente un monumento non intenzionale. Nessuno dei tre progetti che disegnano lo stadio attuale (quello iniziale del 1926, il “secondo anello” con le rampe elicoidali del 1955 e infine il “terzo anello” realizzato per Italia 90) è un prodotto culturale particolarmente sofisticato. Lo stadio non è nemmeno un oggetto particolarmente prezioso (e la sua ruvida atmosfera di nudo strumento per guardare partite di calcio è oggi uno dei motivi della sua possibile demolizione). È solamente grande e, nel tempo, ha lasciato depositare nel suo catino le emozioni di innumerevoli partite (di cui alcune – indiscutibilmente – straordinarie). San Siro è diventato un monumento nel tempo. Partita dopo partita, gli abitanti di Milano hanno gettato un grano di esperienza (privata e collettiva allo stesso tempo) dentro lo stadio. Nel tempo la figura in certo modo mostruosa dei tre anelli di cemento cresciuti uno attorno all’altro come una gigantesca cipolla post-atomica ha iniziato ad avere un posto nella memoria di tutti i milanesi. Oggi San Siro è senza dubbio parte dell’idea di Milano che si sono fatti tutti gli abitanti della città, tanto come il Duomo, tanto come la Scala, tanto come il Parco Sempione.
I tempi della città, i tempi di un business plan
Quando parliamo di demolire San Siro, parliamo di demolire un monumento. Si tratta, senza dubbio, di una discussione legittima: i monumenti si possono demolire, ma per decidere se demolire o meno, dobbiamo affrontare il problema nei termini adeguati.
San Siro è un monumento, e un monumento va misurato sul suo tempo. E anche la sua possibile demolizione va valutata su questo tempo.
Quando discutiamo di demolire San Siro, discutiamo del tempo della città. Discutiamo della famosa “sostenibilità”, della famosa “resilienza”. E la sostenibilità e la resilienza dipendono dalla capacità di immaginare una città che sappia tener presente un insieme di durate diverse, di misurare i suoi progetti su tempi molteplici. La domanda che quindi riteniamo decisiva per capire cosa fare di San Siro (dal punto di vista della città di Milano, che si dà il caso essere proprietaria dello stadio) è: cosa sarebbe meglio avere tra cinquant’anni, nel 2070? L’attuale stadio di San Siro, ricco di una tradizione di 150 anni, universalmente riconosciuto come uno degli stadi più belli del mondo, oppure il “nuovo San Siro”, a quel punto anch’esso vecchio e interamente da rifare (gli edifici contemporanei hanno in media cicli di vita assai minori di quelli di cento anni fa), ma anche certamente privo di una tradizione all’altezza del vecchio? La città pensa di guadagnarci qualcosa?
Nel 1968 a New York venne demolita l’enorme, bellissima stazione neoclassica di Penn Station, per fare al suo posto (la quarta versione del) Madison Square Garden (rifatto poi un’altra volta negli anni 90). New York non preferirebbe oggi avere indietro Penn Station?
Che Eliot e Suning non siano particolarmente sentimentali rispetto a San Siro è comprensibile. Non possiamo chiedere a loro di riconoscere che la pendenza incredibile del secondo anello non si potrebbe riproporre in uno stadio contemporaneo e non possiamo chiedere a loro di difendere questa vertigine che rende così speciale l’esperienza dello stadio attuale. Ed indubbiamente è vero che San Siro non corrisponde alle più avanzate teorie sulla distanza che deve intercorrere tra il consumatore e il rivenditore di hot dog, che non massimizza il numero di magliette di Bertolacci e Ranocchia vendibili nel migliore dei mondi possibili. Più in generale, lo stadio attuale risulta difficile da inserire nei business plans delle due società. L’orizzonte temporale di questi business plans (comunque siano fatti) è infatti infinitamente minore dell’orizzonte temporale di una città, di una comunità di un milione e mezzo di persone. Eliot e Suning non si chiedono (e non sono tenuti a chiedersi) cosa succederà nel 2070, non si chiedono se le teorie sulla vendita degli hot dog cambieranno, non si chiedono quanti stadi vogliamo portare in discarica nei prossimi cinquant’anni, ma la città non può rinunciare a farlo. La città può – dopo una discussione accurata – decidere di demolire San Siro, ma non deve accettare che l’orizzonte temporale di questa discussione venga definito dai business plans dei due clubs.
Insomma, senza nostalgie e anche mettendo da parte l’orgoglio e le emozioni, senza pregiudizi e senza porre veti (e certamente tenendo presenti le intelligenti proposte di trasformazione avanzate negli ultimi anni), sarebbe bene che, attorno al destino di San Siro, la discussione si facesse carico delle complessità culturali e ambientali cui abbiamo accennato. Servirebbe insomma un livello di discussione che riguardi davvero la politica, che poi nasce come arte e dovere di costruire gestire e pensare le polis, cioè le città.
(Gli autori dell’articolo sono Pierpaolo Tamburelli e Jacopo Tondelli, uno architetto, l’altro giornalista e direttore de Gli Stati Generali. Soprattutto, uno interista e l’altro milanista)
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