Altri sport
Dal Ciad alla Stramilano: lo sport come forma di inclusione e nuove opportunità
A volte ci si imbatte in storie straordinarie per caso. Così mi è successo con il protagonista di questa intervista, Tommaso Ravà, guida turistica e atleta. Sapendo che mi interesso spesso di temi legati al sociale e che mi piace raccontarli, mi descrivono la sua storia e subito intuisco che non può rimanere nascosta, ma deve assolutamente essere conosciuta da più persone possibili. Tommaso è una guida turistica specializzata nel Sahara. La sua famiglia fa questo lavoro da più di 45 anni e lui, insieme ai suoi fratelli, ha ereditato la professione da suo padre, ex medico, specializzato in malattie tropicali, che appena laureato trova lavoro in Africa, ma ben presto capisce che non è la medicina ad affascinarlo, ma l’Africa in sè.
“Ho avuto la fortuna/sfortuna di crescere passando metà anno in Africa e metà in Italia. – esordisce Tommaso – mia madre ha seguito l’avventura lavorativa di mio padre e quindi noi figli siamo cresciuti, fino alle scuole medie, passando 5/6 mesi in Africa e il resto in Italia. I miei genitori hanno iniziato tutto in modo molto naif. Hanno comprato le prime 3 Land Rover vendendo parte dell’arredo della casa di Milano e dal 1976 al 1983 abbiamo vissuto nomadi nei paesi sahariani, ci spostavamo dal Mali all’Algeria. Una vita molto avventurosa, arricchente, ma anche faticosa per dei bambini. Io e mio fratello eravamo due bambini bianchi, in villaggi di soli neri, alla fine degli anni ’70: il diverso eravamo noi e la curiosità nei nostri confronti era tanta.”
Inizia così la mia chiacchierata con Tommaso, che oggi, oltre a fare la guida turistica in Ciad, per diletto allena giovani ragazzi africani con la passione per la corsa, permettendo loro di venire in Europa e partecipare a gare di atletica e provare a costruirsi un futuro migliore.
Ma partiamo dall’inizio. Da dove nasce la tua passione per due sport così apparentemente diversi come la boxe e l’atletica?
Anche la passione dello sport è un’eredità di mio padre. Lui è un alpinista e lo sport ha sempre fatto molto parte della nostra vita quotidiana. Io ero il ribelle di casa, quindi mentre tutti arrampicavano io ho scelto l’antitesi, il pugilato, perché è uno sport nel quale non devi mai staccare i piedi da terra. Ho praticato pugilato dalla fine del liceo, fino a quando mi sono sposato e ho avuto due figli. Prima, come tutti i miei fratelli, avevo già fatto atletica, un amore nato fin da ragazzino. Correvamo in Africa. La passione per l’atletica è riemersa quando ho smesso di fare pugilato ed è una passione che riesco a gestire anche con il lavoro, che mi porta a stare in Africa per diversi mesi l’anno.
Ed è proprio grazie alla corsa che nasce, un po’ per caso, quella che adesso è diventata la tua nuova passione: fare l’allenatore in Italia di atleti provenienti dal Ciad. Ci racconti come è andata?
È una passione che mi dà tante gratificazioni sportive, ma soprattutto umane. In Africa abbiamo sempre fatto una vita di unione con gli abitanti del Paese che ci accoglieva. Io ora vivo prevalentemente in Ciad durante la stagione lavorativa e ho sempre frequentato tutti gli ambienti in autonomia, anche l’ambiente sportivo, per continuare ad allenarmi. In queste sedute si è creato un gruppo di allenamento con i ragazzi dello stadio di N’Djamena. Gli sportivi sono uguali in tutte le parti, abbiamo la stessa mentalità e la stessa tenacia, mi piace dire che il sudore è uguale per tutti, tutti sudiamo alla stessa maniera Quello che però mi ha colpito di questi ragazzi è il loro mondo fantasioso, le loro credenze che li portano a pensare che con la corsa arriveranno molto lontano. In realtà in Ciad con la corsa non si arriva da nessuna parte, è uno dei Paesi più belli della fascia sahariana, ma è un paese con grandissime problematiche sociali e politiche. Mi sono affezionato ai ragazzi più poveri di questo gruppo e nel 2017 ho provato a dare un’opportunità a uno di loro, Alì Mahamat 18enne, per fargli vivere il suo sogno. Mi sono accanito fino a quando sono riuscito a fargli ottenere un visto, Alì è arrivato in Italia a marzo 2018, grazie a un invito di Stramilano e in pochi mesi ha raggiunto risultati da atleta di caratura internazionale. Siamo andati ai campionati mondiali junior a Tampere, il tutto in 4 mesi. È stata un’esperienza entusiasmante, anche se non facile. Accompagnare nella quotidianità un ragazzo, che vive in una bidonville africana, analfabeta, catapultato a Segrate, non è stato semplice. È vero però che lo sport abbatte molto velocemente le barriere, quando si è compagni di sudore, si diventa facilmente amici. Così è stato anche per Alì, nonostante parlasse solo il suo dialetto. Lo sport è uno dei mezzi più efficaci per creare integrazione.
Cosa fa ora Alì Mahamat?
Oggi Alì è riuscito ad avere un permesso di soggiorno in Francia, con un’attività semiprofessionistica in una società di atletica e contemporaneamente un contratto di lavoro come magazziniere. Questo gli ha permesso di cambiare completamente la sua vita. Mi ricordo ancora una gara nella quale lui cercava di fare un minimo cronometrico per andare ai campionati del mondo junior a Tampere ed era un traguardo che non poteva permettersi di non raggiungere. Mentre stava correndo, mi resi conto che stava calando il ritmo e in proiezione era fuori dal raggiungere quel minimo, allora gli ho gridato “ricordati del quartiere di merda dove vivi”. Lui lì è riuscito a tirare fuori tutto quello che aveva e si è qualificato. Ora vive una vita dignitosa in Francia, dove ha fatto un miglioramento della sua quotidianità notevole e questo mi ha dato grandi soddisfazioni.
Dopo Alì cosa è successo? Come è proseguita la tua nuova avventura?
Ovviamente io continuo la mia attività con l’agenzia viaggi in Ciad, l’effetto Alì è stato travolgente. Ricevo moltissimi messaggi di apprendisti atleti, dal Camerun, dal Ciad, che vogliono essere seguiti, ma purtroppo non è così facile ed è cinico da dire, ma non riesco ad aiutare tutti. Per tutti gli aspetti logistici ci sono sempre stato e qui in Italia sono stato aiutato da uno dei più grandi allenatori, Giorgio Rondelli, allenatore di Alberto Cova e Francesco Panetta. Giorgio ha fatto tutto gratuitamente e ha accettato questi ragazzi nel suo gruppo di allenamento. Quest’anno siamo riusciti a fare arrivare in Italia, dopo un anno di battaglie, un’altra ragazza, sempre dal Ciad e sempre dalla fascia più povera della popolazione, Fraida Hassanatte. Grazie ancora all’aiuto di Stramilano, una gara storica milanese, una delle più importanti in Italia, che mi ha sempre dato un appoggio sostanziale, perché alla fine se non hai un invito ufficiale, con certe credenziali, è impossibile avere un visto Schengen. Fraida è rimasta poco più di 30 giorni, nei quali ha fatto 6/7 gare e ha conseguito 4 record nazionali. Adesso la stiamo aiutando a preparare il suo percorso che speriamo la porti alle Olimpiadi di Parigi 2024.
Oltre a un invito ufficiale per una gara, quali sono le altre difficoltà nel far arrivare questi ragazzi in Italia?
Questi ragazzi vivono con lo stereotipo dell’uomo bianco che può tutto e con il mito che in Europa tutto sia facile, poi quando arrivano qui si rendono conto che non è così. Una cosa che li lascia sempre molto stupiti è il nostro ritmo frenetico con il quale conduciamo la giornata. Quindi la prima cosa che ho cercato di far capire loro è che non avevo intenzione di fare soldi sugli altri, che lavoro duro e che per me niente è facile. Ho quindi spiegato ad Alì, il primo ragazzo che è arrivato, che mi sarei occupato di tutti gli aspetti burocratici, gli avrei fatto tutti i documenti, ma non gli avrei pagato il biglietto aereo. Non volevo creare un precedente, ma soprattutto non volevo fare l’uomo bianco che ti salva. Cosa è successo? si sono organizzati, chi aveva di più ha aiutato chi aveva di meno, tutti gli atleti di N’Djamena si sono mesi d’accordo e grazie a una colletta gli hanno comprato il biglietto aereo. Questo è il concetto di grande famiglia africana. Alì al suo ritorno ha portato un sacco di materiale donato da sponsor, come Adidas, quindi poi tutti hanno avuto un ritorno, ma la cosa straordinaria è che gli atleti si sono preoccupati tutti di partecipare alla colletta.
Ultimo grande successo dunque il secondo posto di Fraida Hassanatte alla Stramilano. Queste vittorie cosa rappresentano per questi ragazzi?
Fraida ha fatto una gara molto convincente, è arrivata 10 ore prima, nonostante un periodo di allenamento travagliato. Sicuramente ha giocato a suo favore il meteo. Quel giorno a Milano c’erano 32°, ma lei arrivava da un posto dove ce n’erano 48°. Quindi molte delle atlete più quotate dell’ambito nazionale sono saltate e lei ha continuato. Inoltre aveva una forte carica emotiva, perché è arrivata dietro a un’atleta olimpionica. Io ho corso con lei quella Stramilano, ero ingaggiato da un’atleta molto forte che doveva arrivare davanti a Fraida per accompagnarla in quei 21km. Quell’atleta però al dodicesimo km è andata in crisi e io ho visto Fraida che arrivava e ho chiesto se potevo correre con lei. Sono stati 10 km molto emozionanti anche per me, perché sapevo che aveva gli occhi puntati addosso, tutti ne parlavano, era un record nazionale, c’era in ballo un premio economico… insomma 10 km di godimento.
Come si sono sviluppati i rapporti con la Federazione Atletica del Ciad? Come questa tua attività influenza a quali ripercussioni ha per tutti gli altri atleti che rimangono in Africa?
Non è stato semplicissimo è un rapporto che si è costruito negli anni, perché inizialmente non vedevano di buon occhio questa mia intrusione nella gestione della loro atletica, soprattutto perché che mi occupavo degli atleti della fascia più povera. Oggi però siamo riusciti a trovare un accordo e a collaborare.
Qual è l’importanza sociale dello sport, anche in termini di integrazione culturale?
Nella mia vita a Milano, sia quando ero con i miei genitori sia quando sono uscito di famiglia, abbiamo sempre accolto ragazzi africani, dal Niger, dal Mali, alcuni si sono fermati anni a vivere con noi, però c’è sempre un limite di integrazione culturale e non è facile, soprattutto per quelli di religione musulmana. In quei Paesi l’Islam li aiuta sicuramente a rimanere centrati, solidi, ma gli dà anche molta rigidità. Quelli che riescono a superare meglio questo aspetto, sono quelli che hanno intrapreso un’attività sportiva. C’è da dire che questi ragazzi a 18, 19 anni sono molto più maturi dei nostri 18enni. Loro a 12/13 anni vanno via dal villaggio e sono quindi più autonomi.
Quali sono le difficoltà più grandi che hai riscontrato in questi anni?
Le difficoltà sono quelle economiche. Fraida è arrivata in Italia grazie a una colletta di appassionati, guidata da Marco Olmo e Alberto Rovera, personaggi di spicco nell’ambito della corsa in montagna. Ma poi gestire qui questi ragazzi costa: in cibo, in massaggi, in attrezzatura, in proteine, oltre ovviamente al tempo dedicato, ma quello lo investo con piacere.
Quale insegnamento, che hai ricevuto dai tuoi maestri (Tazzi per la box e Rondelli per la corsa), cerchi di trasmettere ai tuoi allievi?
Da Tazzi un insegnamento che vale per qualsiasi competizione: godere della possibilità che la gara ti dà. È un momento tuo, puoi esprimerti, devi divertirti, sono tutti lì a guardarti, mostra quanto sei bravo e quanto sei contento. Tazzi mi diceva sempre “Sei preparato, alegher e sù i man”. Quando si perde il divertimento vuol dire che si è spenta la fiamma ed è il momento di andare a fare altro. Da Rondelli invece ho imparato la meticolosità e l’analisi puntuale e le metodiche di allenamento. Quando è arrivato Alì da Malpensa siamo andati al campo 25 aprile dove si allenano gli atleti di Rondelli. Il giorno dopo c’era la Stramilano e Alì voleva fare un po’ di jogging per sgranchirsi le gambe. Rondelli l’ha visto correre per 10m verso il Monte Stella e mi ha detto: “domani Alì chiude la gara in 01:10:00”. Alì il giorno dopo ha corso in 01:09:46.
Progetti per il futuro?
Il mio sogno era fare il tecnico per la Federazione Atletica del Ciad, ma è un po’ complicato. Per me ora l’importante è la gratificazione e la gioia che questa mia passione mi sta dando. Quando arrivo in Ciad e porto al campo le casse di scarpe e magliette e li vedo contenti, per me è il massimo della soddisfazione e continuerò a farlo fino a quando riuscirò. A differenza dei miei figli, che vengono sì spesso in viaggio con me, ma sono cresciuti in Italia e non hanno quell’imprinting, io mi rendo conto che l’Africa è dentro di me, come mi rendo conto che lo sport è una forma importante di inclusione.
Devi fare login per commentare
Accedi