Milano

Da #statesereni a #ghepensimi: così va in scena la renzizzazione di Pisapia

10 Dicembre 2015

Il nastro va riavvolto a partire da quella domenica pomeriggio. Era Marzo, per la precisione il 23, e all’apertura di un Expo in affanno mancava poco più di un mese, quando un tam tam tra cronisti ci fece accorrere a Palazzo Marino, sede del Comune di Milano, per non meglio precisate comunicazioni del Sindaco alla stampa. Sapevamo tutti che avrebbe dato la notizia: si candida o non si ricandida a Sindaco, in vista delle elezioni comunali del 2016? Non si candidò, disse che non si sarebbe ricandidato, spiegò che in quel momento – semplicemente – confermava quanto aveva sempre detto.

Era vero, ma anche no. Era vero che si era presentato come candidato da un solo mandato, al primo giro. Era falso che quella premessa e quella promessa non fosse mai state messe in discussione, e tanti lo testimoniano in privato per negarlo in pubblico. A spingere l’acceleratore sulla necessità di “aprire una fase nuova” furono, anzitutto, quelli del Pd di Milano. I renziani del Pd di Milano e lombardo. Agli atti passa che sul finire dell’estate del 2014 fu addirittura Lorenzo Guerini, allora potente vicesegretario di Renzi, oggi vicesegretario semplice, a chiedere a “Giuliano” cosa voleva fare da grande. Il renzismo milanese ortodosso, quello fatto dai pochi, nel partito, che già alle primarie del 2012 stavano con Renzi, raccontava la storia come un “aut aut” posto nell’interesse di una città cui serviva una guida più sicura, più giovane, più convinta, semplicemente più “renziana”. Sia nel tratto antropologico, sia nella militanza politica. Quando si scrivono queste cose, immediati, i pretoriani corrono a gridare: “Ma è del tutto legittimo, il partito era al 40% a livello nazionale, e al 45% solo a Milano!”. Tranquilli, è legittimissimo: qui si guarda solo la parabola della pallina, per capire se finirà in buca, con quali costi e con quali benefici, entrambi pubblici: e scusate e se è poco.

Era in ogni caso legittimo, e la narrazione condivisa, sotterranea ma ancora legittima, è che alla Milano di Pisapia mancasse un quid di energia, freschezza, visione, governo, carisma. L’avvocato di sinistra, buon borghese, sempre attentissimo ad ogni passaggio legale che riguardasse la figura del sindaco (cioè tutto), non sempre abile nella gestione delle diplomazie interne alla giunta e delle personalità più di spicco – citofonare a Stefano Boeri, per chiarimenti – veniva percepito, raccontato come un punto di sintesi politico positivo ma ancora arretrato, e un catalizzatore di politiche cittadine apprezzabili ma ancora timide. Era marzo, e l’Expo che arrivava era ancora un vento carico del ricordo di manette e scandali recenti, di ritardi dati da molti per drammatici e sicuri, e di interrogativi sul successo che prendevano immediatamente la forma dello scetticismo, se non del pessimismo.

Poi succedono alcune cose, a Milano e nel paese, che solo in pochi, i più avveduti, erano riusciti a immaginare per tempo. La prima, la più importante, che un paese sfiancato da decenni di immobilismo, di crisi, di politica stentata e di nottate troppo allegre per le giornate della maggioranza di noi, ha voglia di messaggi positivi. Ha voglia di aggrapparsi a quel poco di bello che viene raccontato, predicato, realizzato. Metà del successo di Expo, un successo che va oltre i numeri e l’aria bella, nasce lì. L’altra metà di quel successo, di quel non-insuccesso, finalmente, la fa invece l’oggettiva riuscita del grande evento, che suona tanto più piena ed esaltante se confrontata con la lunga abitudine alle brutte figure, e la preparazione arrivata a colpi di ritardi e scandali. E invece, a Expo vengono parecchi visitatori (non tantissimi, invero, e non si sa ancora a quale prezzo medio), ma certo ci vengono. Lo apprezzano, ne parlano, rilanciano. E intanto, a Milano si vedono i segni del lavoro degli anni (e anche delle giunte) precedenti. Il successo è tanto più radioso, se confrontato con il male in cui sguazza Roma, tra mafie capitali, caccia agli scontrini e lapidazioni di Ignazio Marino.

Questa cambiamento climatico, o questo cambiamento di percezione, prepara all’oggi in maniera importante. Giuliano Pisapia, sindaco ormai dimissionario, guarda dall’alto, silenzioso e senza benedizioni di sorta, chi inizia a reclamare un posto al sole per il futuro. Il primo è il parlamentare pd Emanuele Fiano, renziano di area franceschiniana. Siamo a inizio luglio. Pochi giorni dopo scende in campo con chiarezza anche Pierfrancesco Majorino, assessore al welfare del Pd, che nel partito sta decisamente più a sinistra di Renzi. Pisapia? Sorride, benedice, promette equidistanza e che garantirà la democraticità del processo. Vale a dire, primarie aperte e vere. Tutto liscio? Non proprio: pochi giorni dopo, a metà di un luglio torrido, si dimette la vicesindaca e assessore all’urbanistica della giunta Ada Lucia De Cesaris. Se ne va, sbatte la porta e poi rispetta una lodevole consegna del silenzio. Allora valutammo la questione come dominata dai tratti di un carattere genuinamente spigoloso. Sicuramente contava, ma non era certo tutto, e vista dal fondo la storia si capisce anche meglio.

Col finire dell’estate si approssima la fine di Expo, e la situazione si avvicina al chiarimento. Majorino e Fiano continuano la loro campagna elettorale, ma sui giornali nazionali, in particolare per le firme che meglio custodiscono e diffondono il pensiero e i desideri di Matteo Renzi, inizia a farsi sempre più stretto il cerchio intorno a un nome, per il futuro di Milano. Indovinate un po’, il nome è quello di Beppe Sala. “La campagna elettorale con lui era già fatta e si son messi a fare casino”, è il refrain delle ultime settimane. Ma via via, risalendo negli archivi, le tracce si trovano, univoche. Lo stesso Renzi che confidava, in privato, di avere grande stima di Sala ma di preferire una candidatura pienamente politica si trova probabilmente a fare i conti con un dato di fatto: all’incrocio tra notorietà, credibilità, capacità dimostrata in cui sta Sala non c’è nessun politico democratico milanese di sua fiducia. E nessuno, in ogni caso, che incarni allo stesso modo un disegno politico che prenda atto del superamento – questa è la convinzione renziana, che come ogni cosa deve attraversare indenne la prova del tempo – dello schema politico del vecchio centrosinistra. Quello che si intuiva all’apertura di Expo, insomma, diventa evidente con il finire dell’estate e la piccola festa dell’Unità celebrata proprio a Milano.

Expo poi finisce davvero, tra coriandoli e bandiere, e Sala ha un vincolo – quello di portare a termine il dopo-Expo, con contratto già firmato fino al 31 dicembre. Il tempo però stringe, e le polemiche e le lotte interne rischiano di esplodere. Neanche il tempo di ventilare appena una sua disponibilità, e di fatto la candidatura più renziana fino a quel momento in campo – quella di Emanuele Fiano – viene congelata. Senza che nessuno lo espliciti, senza un grazie, un prego, un arrivederci. Intanto Sala mostra i muscoli, già è molto popolare ma decide – o viene consigliato: bene? male? – di schiacciare sull’acceleratore. Va in tivù due volte in tre giorni a neanche dieci giorni dalla chiusura di Expo. Siamo a un mese fa, giorno più, giorno meno. Sembra tutto liscio, una sfida tra Sala e Majorino, tra società civile che si riconosce nel pd renziano e sinistra che a Renzi pre-esisteva, tra “partito della nazione” e politica di centrosinistra. Sembra.

Perché nell’ombra, sornione come un gatto, accorto come un serpente, si muove Giuliano Pisapia. Il nome di Francesca Balzani inizia a increspare le pagine dei giornali e il tam tam tra operatori, osservatori, curiosi, bene informati e millantatori di sorta. I maligni di fede renziana riferiscono che, a un primo incontro tra Pisapia e Renzi, quando il sindaco avrebbe detto al premier che un ‘alternativa a Sala lui ce l’aveva, e aveva nome di Francesca Balzani, il premier abbia risposto col suo proverbiale, finto interrogativo: “Chi?!”. Saran senz’altro cattiverie, che un Sala non ancora candidato ha però utilizzato per descrivere il poco tasso di conoscenza che avrebbe Renzi della non ancora candidata Balzani: “Ha fatto bene Pisapia a portarla da Renzi, almeno adesso la conosce. A me, invece, conosce già abbastanza bene”. Qualcuno, peraltro, riconduce la discesa in campo di Pisapia per la sua vice (vice da luglio, al posto della dimissionaria De Cesaris di cui diciamo sopra, e anche qualcosa sotto) ai maldestri retroscena in cui Sala affida alla discussione il suo rappresentare un modello diverso da quello di Pisapia. Dentro a uno schema di centrosinistra aperto al centro, rivolto al centro, e molto meno alla sinistra che fu. Pensare che davvero Pisapia abbia appreso qualcosa da quelle uscite fa un torto al sindaco di Milano: che ha mostrato, e sta mostrando, che le cose della politica le capisce, e capisce bene anche quelle più sottili. Figurarsi se gli servivano le didascalie per capire bene che l’antropologia politica e la geometria di interessi rappresentata da Sala benedetto da Renzi era diversa da quella che, a suo tempo, aveva incarnato lui, sbancando Milano nel 2011.

La verità, e adesso la si capisce meglio, è che all’operazione-Balzani, Pisapia lavorava da un po’. Quantomeno, ci pensava concretamente da quando, a metà di luglio, la pesca dall’assessorato al bilancio dove l’aveva messa dopo l’uscita del suo vecchio amico (e assistito) Bruno Tabacci per farla diventare vicesindaco. Alla prima uscita pubblica da Vicesindaca, all’inaugurazione del Pavillion di Unicredit, dove è presente anche chi le ha ceduto il posto, Ada Lucia De Cesaris, Balzani sorride a tutti e dice, ecumenica, che lei è lì per unire. Facile pensare che voglia marcare una differenza, no? Non difficile pensare che, quella sostituzione in corsa, fosse il frutto di una sostituzione già iniziata, nella mente di Pisapia: che prima aveva pensato, o fatto pensare, che nel novero delle candidabili, e in buona posizione, ci fosse proprio De Cesaris e poi, piano piano, avesse rivolto la sua preferenza altrove. Chi ha lavorato con la Balzani, negli anni della giunta, la ricorda silenziosa, attentissima a non uscire dal campo del suo assessorato, attenta a un profilo politico di sinistra – nella Liguria da molti citata come spauracchio era stata con Cofferati, con il quale aveva condiviso l’elezione a eurodeputata, e contro Raffaella Paita -, ma certo introdotta nel mondo del centro di Milano, quel mondo di avvocati e professionisti cui appartengono lei e il marito, docente universitario. Quel mondo che congiunge bel mondo progressista e sensibilità sociali che – appunto – produsse il ciclone arancione di Giuliano Pisapia.

“Giuliano”, come amichevolmente lo chiamano in tanti, a Milano, che lui nemmeno conosce. Proprio lui. Il pallino se l’è ripreso lui, alla grande, nelle settimane passate e tornano alla mente le parole sentite da diversi amici renziani nei mesi scorso. “Magari fa il tonto, ma credimi: quello è più furbo di tutti noi. Vedrai..”. Lo dicevano in pochi, perché i prudenti e quanti non sottovalutano le controparti, in politica, sono spesso triste minoranza, e oggi raccolgono le ragioni che non avrebbero mai voluto vedere riconosciute. Perché Pisapia ha imposto una semisconosciuta (a Milano) Francesca Balzani nei palcoscenici nazionali che contano. In quattro e quattr’otto. Non bastano due uscite in tv per diventare popolari e riconoscibili, ovviamente, ma certo è un inizio. E che inizio, visto che è solitamente precluso alla maggioranza di chi fa politica e anche – sia detto per inciso – a chi alle primarie è già ufficialmente candidato, e da un po’, come Pierfrancesco Majorino. Al quale – sia detto per inciso – è bene rivolgere un pensiero attento. Qualunque cosa farà, statene certi, si dirà ogni male. Se starà in campo e continuerà per una strada intrapresa in solitaria da mesi, si dirà che è un narcisista ed egoista che divide il fronte della sinistra a vantaggio di Sala o, peggio, in nome di chissà quali accordi sottobanco con lo stesso.  Se invece, cedendo a molteplici spinte che arrivano da molti lati, si dovesse ritirare, si dirà che non ha il coraggio delle sue azioni, e che ha sfruttato per niente la passione e la credulità di chi lo ha sostenuto. Ce n’è abbastanza, pare, per dirgli, sommessamente e modestamente, di decidere in piena coscienza e libertà: qualunque cosa farà sarà quella giusta, dati i pulpiti e i predicatori dai quali sarà presto circondato.

Ma non è certamente solo, o tanto, una questione di attenzione mediatica. la mossa di Pisapia ha impressionantemente scatenato, a spallate, una reazione politica vera. Michele Fusco ha scritto, giustamente, che Milano è l’unica realtà che ha mostrato anticorpi all’egemonia renziana. Non è una questione di giudizio di merito, qui, ma di semplice osservazione della capacità di una reazione politica e della concreta rivendicazione di autonomia di un sistema cittadino importante rispetto al centro decisionale e politico, che sta nel nostro caso a Roma. E in questa dinamica, sicuramente, svetta la capacità – molto politica, molto cinica: decidete voi quale aggettivo è compreso dall’altro – di Giuliano Pisapia. Che da arbitro imparziale e semplice garante del processo si è calato nel ruolo di chi prende in mano una partita, e cerca di guidarla verso un obiettivo preciso. Obiettivo poi dichiarato, esplicitamente, in una lettera a Repubblica firmata con altri due sindaci dell’onda arancione (il cagliaritano Massimo Zedda e il genovese Marco Doria), nella ricostruzione del centrosinistra che fu, capace di contemperare anime radicale e anime riformiste per fare un argine comune all’ondata di populismi.

Analisi giusta? Analisi sbagliata? Analisi adatta alla contemporaneità italiana o forse troppo suggestionata da quella – tutta diversa – che si è vista in azione in Francia? E ancora, e soprattutto: è quella dei sindaci un’analisi che risponde davvero alla realtà sociale e politica di oggi, o ha invece ragione Renzi che pensa che per il centrosinistra c’è posto, dopo la fine di Berlusconi, solo se è capace di radicarsi al centro, di parlare in modo massiccio a quelle pulsioni che chiedono crescita, benessere, speranza o illusione del consumo, possibilità di lavoro, foss’anche precario, e una lingua definitivamente post-Novecentesca? La scommessa non è da poco, e come si vede travalica ampiamente i pur rilevanti confini di Milano per parlare al paese e allo schema politico che lo governerà, o chi sfiderà quello che lo governa adesso. È una scommessa che editorialisti autorevoli, come Stefano Folli, proiettano addirittura in chiave di politica nazionale, vedendo all’orizzonte una sfida a Renzi lanciata da Pisapia in persona. Quest’ultimo passaggio pare francamente forzato, ma il resto fila tutto. Restano i dubbi sull’esportabilità dello schema che nel 2011 portò Pisapia alla vittoria, in un tempo in cui il Pd aveva il volto già stanco di Bersani mentre a Milano vent’anni di sconfitte erano state temperate, solo in Provincia, da Filippo Penati, e giocare alle primarie il ruolo dell’anti-establishment era sicuramente più facile.

Ma certo, il guanto di sfida lanciato di Pisapia non è privo di fascino perché – se alla fine il gioco si svolgerà dentro a questi binari – permetterà di misurare su un terreno vero e serio – il centrosinistra a Milano, questa Milano tutto sommato sorridente e che funziona – quanto tiene e quanto funziona il modello di partito e di paese che ha in testa Renzi. Per quanto non benedirà Sala, sarà Sala il suo eventuale candidato, e su quella candidatura si misurerà in definitiva la presa di un modello nella città che più gli somiglia, che più lo ha votato, e più si ritrova in questo modello di centrosinistra pragmatico, anti-ideologico, senza tabù, vagamente sfrenato. Si misurerà, anche, da queste parti, la forza aggregante dell’antirenzismo, in una sfida che finirà col dire, davvero, se gli scricchiolii dei mesi scorsi erano le prime avvisaglie di una struttura che non teneva e se, invece, siamo di fronte a un asso pigliatutto. Perché se i renziani vincono qui, a queste condizioni, scalfirne l’egemonia sarà più difficile, e la sfida di Pisapia avrà finito anzi per rafforzarla: lasciando dire ai benevoli che “almeno ci ha provato”, e ai malevoli che si è lanciato ingenuamente in una sfida impari o, peggio, che ha fornito l’assist definitivo al renzismo imperante.

Infine, buoni ultimi, i dubbi etici. La sfida al modello-Renzi arriva in perfetto stile Renzi. “State sereni, non benedirò nessuno per la mia successione”, prometteva Pisapia. Ecco, amen. “La sfida di Milano si giochi sui temi della città, del suo futuro, del suo sviluppo, teniamo fuori le questioni nazionali”. Ecco, amen per la seconda volta. Un secondo peccato assai più grave del primo. Venga presto, per tutti, il tempo di un ravvedimento operoso. Serve a Milano, che è carina, ma non è ancora la città dell’utopia, e serve anche al centrosinistra che si sta abituando a fare tutto come se fosse da solo. Gli elettori, grazie al cielo, esistono, e presto o tardi torneranno a disturbare i manovratori.

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