Calcio
Da Franco al calcio come industria, Real Madrid-Atletico è il derby del 900
Al museo del Prado, nelle sale dedicate alle Pinturas Negras di Goya, c’è un quadro che s’intitola Duello rusticano. Rappresenta due uomini che lottano uno difronte all’altro, le gambe mezzo affondate nel terreno, per mezzo di randelle. Gli storici dell’arte ci hanno visto la prima rappresentazione pittorica delle due spagne che si sarebbero massacrate nella guerra civile del 1936. La patria di Cervantes è ancora attraversata da quel sentimento di rivalsa, di rabbia repressa nei confronti dell’altra metà della popolazione, un sentimento che qui ha perfino un nome: cainismo, l’odio covato nei confronti del fratello.
I confini dei due schieramenti sono labili e non sempre possono essere costretti nelle tradizionali categorie ideologico-politiche, ma se Goya ha saputo fermarli in un’immagine pittorica, niente come la sfida tra Real Madrid e Atletico di Madrid in programma stasera allo stadio San Siro di Milano può darne la cifra nello sport nazionale, il calcio. Si tratta della rivalità più antica del paese, seconda soltanto a quella tra Real Madrid e Athletic Club de Bilbao (del quale l’Atletico di Madrid fu ai suoi albori la succursale capitolina) e in essa si riversano le inimicizie storiche che hanno portato la Spagna in fondo al precipizio durante il secolo breve.
Sminuita dal moderno antagonismo con il Barcellona, quella tra Atletico e Real è in realtà la madre di tutte le sfide: Dimenticatevi del Barça, arringava Alfredo Di Stefano negli spogliatoi del mitico Real delle cinque coppe campioni consecutive, chi può renderci la vita impossibile è l’Atletico di Madrid. L’asso argentino non aveva tutti i torti: i blancos dovettero sudare sette magliette per eliminare i cugini nella semifinale del 1959 (finì 2-1 alla partita di spareggio, a Saragozza). Il Real del presidente Santiago Bernabeu si era installato sulla cima d’Europa grazie a giocatori leggendari come Gento, Puskás e Santamaría, ma dovette subire la rivalsa dell’Atletico in due finali di Coppa del Re disputate una di fila all’altra: 1960 e 1961. Più recentemente, gli uomini di Diego Simeone hanno interrotto una supremazia che durava da 14 anni, iniziando una serie di trionfi che solo l’eliminazione dalla Champions dell’anno scorso e la dolorosa sconfitta nella finale del 2014 a Lisbona (4-1 ai supplementari) hanno intaccato.
Sembra stia diventando una tradizione, la finalissima di Champions tra le due squadre della capitale spagnola, ma nessuno se lo sarebbe mai immaginato quando si giocò il primo derby vicino al parco del Retiro: i giocatori avevano calzoni lunghi e un bel paio di baffi. Era il 1904. Alla Scala di Milano andava in scena la prima assoluta di Madama Butterfly; Eugenio Montale aveva otto anni e Salvador Dalì non era ancora uscito dalla pancia di sua madre. È anche quest’antichità che la Champions, e con essa la UEFA, smercia a peso d’oro per incassare gli esorbitanti diritti televisivi della seconda finale tra le merengues e i colchoneros. Al vincitore andranno 15 milioni di euro, al perdente 10,5: non proprio un pugno di noccioline.
Ma la trasformazione della Coppa dei Campioni in Champions League ha avuto degli effetti ben più profondi dei premi di partecipazione; ormai calcio e televisione sono una cosa sola, e quest’anno la UEFA ha incassato e redistribuito ai club 1.257,3 milioni in diritti di ritrasmissione. Se a questo si aggiunge l’indotto di viaggi, soggiorni in albergo e divertimenti, è chiaro che la Champions si è ormai trasformata in una miniera d’oro. Non sappiamo se era questo l’esito che aveva in mente il direttore de L’Équipe, Gabriel Hanot (che avrebbe poi inventato anche il Pallone d’Oro) quando espose a Santiago Bernabeu il progetto di una competizione tra le migliori squadre d’Europa. Per la Spagna venne scelto il Real Madrid, per l’Italia il Milan e per la Francia lo Stade de Reims: fu l’inizio delle grandi differenze economiche tra i grandi e piccoli del calcio, che si accrescerebbe ulteriormente se la Super League sponsorizzata dalla ECA (Associazione Europa dei Club) prendesse il via: Andrea Agnelli ha già dichiarato che l’obbiettivo è quello di avvicinarsi ai 7.000 milioni d’introiti generati dalla NFL americana.
Il ruolo fondativo è stato spesso utilizzato per gettare un’ombra sulle vittorie del Real Madrid, accusato di essere la squadra del dittatore Francisco Franco. Una lettura più attenta della storia, tuttavia, suggerisce conclusioni diverse. Il Real fu certamente utilizzato a scopi propagandistici dal regime franchista, come l’Argentina di Kempes fu utilizzata dal torturatore Jorge Videla, ma i suoi legami con la cupola militare non furono mai così organici come quelli dell’Atletico. Poco nota al pubblico, in effetti, è la storia della risurrezione dei colchoneros (soprannome che deriva dai colori della divisa, identici ai materassi dell’epoca) nell’immediato dopoguerra. Lo stadio e il morale distrutti dai bombardamenti, la squadra oggi presieduta dal produttore cinematografico Enrique Cerezo accettò di fondersi con l’Aviazione Militare per partecipare e vincere i primi due campionati della dittatura. Il nome fu cambiato ad hoc in Atletico-Aviación.
Ogni parallelismo politico, tuttavia, è imperdonabilmente superficiale, e infatti sia il Real che l’Atletico videro i loro idoli cadere al fronte. Il caso che più emblematico di quella tragedia, lontana anni luce dal divismo stellare di Gareth Bale, Antoine Griezmann e compagnia, fu quello di Patricio Escobal, difensore che militò in entrambe le squadre e fervente repubblicano. Sopravvisse gridando il suo odio a Francisco Franco in faccia al suo torturatore, il potentissimo Millán Astray, che poco prima di spappolargli il fegato a suon di botte si fermò e ne riconobbe il valore. Lo spot per la campagna abbonamenti del 2013, nel quale un condannato a morte viene graziato in virtù della simpatia per la stessa squadra di calcio del suo carnefice, l’Atletico di Madrid, dimostra che questi sentimenti sono ancora vivi, presenti, ma che oggi la sfida è vissuta dai più, e per fortuna, come un simbolo della lotta tra i ricchi e i ribelli che cercano di tendergli un’imboscata.
Il Real Madrid che cerca la sua undicesima vittoria in Europa ha una bilancio annuale di 660 milioni di euro, la metà del PIL delle Seychelles; l’Atletico di Madrid, che ancora non ha mai vinto la competizione, non è certo rimasto al palo. Nel 2013 ha affidato il proprio marchio al responsabile del marketing della Walt Disney, Javier Martínez, che nel giro di tre anni ne ha fatto l’ottavo club al mondo in vendita di gadget e magliette. In questo clima di lotta tra titani è inevitabile che si creino simpatie dirette o indirette, e così veniamo a sapere che il Re di Spagna Filippo VI è un riconosciuto colchonero, come il cantante Joaquín Sabina e il torero José Tomás. Il poeta Luis Alberto de Cuenca, invece, è un merengue (dalle bianche meringhe, i dolci tradizionali di Madrid), come il tenore Placido Dominguéz e il tennista Rafa Nadal.
In questi anni le squadre spagnole passeggiano sui campi europei come gli antichi Re facevano nei loro giardini, ma i soci più anziani di Real Madrid e Atletico se lo ricordano ancora, quando si riunivano nel vecchio stadio andato distrutto: il Metropolitano. Non c’erano spalti, sedevamo sull’erba e invadevamo il campo alla fine della partita, perché non aveva recinzioni. Speriamo che la battaglia di questa notte, che si prevede senza esclusione di colpi, sappia conservare qualcosa della vecchia signorilità di un tempo. Hasta siempre, caballeros, e che vinca il migliore.
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