Arte

Ci sono milanesi che: pago, pretendo, abbatto (povero Burri e poveri noi)

26 Luglio 2015

Circa un anno e mezzo fa, quasi sospesa tra Circo Massimo e Aventino, apparve a Roma un’opera d’arte struggente nella sua oscena distanza da quei luoghi. Era un «Omaggio a Mondrian” così patacca ma così patacca che il maestro se n’ebbe sicuramente a male, qualunque sottosuolo risiedesse. Il sito «Artribune.com» che ne scoprì la stravagante presenza, così lo descriveva: «Per chi transita in auto o a piedi, visuali e prospettive sono irrimediabilmente danneggiate dalla doppia stele bianco-nera appoggiata su un triplo podio ricoperto di finta edera (edera in plastica sì, con Campidoglio sullo sfondo!)». Due mesi prima, di notte e con un gruppetto di amici, il buon Francesco Visalli, artista 54enne del Prenestino che in quel momento non aveva (ancora) esposto né alla Tate Modern né al Moma, piazzò il mammozzone in quel posto incantato e lì rimase. Per due lunghissimi mesi. Senza che nessuno si interrogasse sul suo significato artistico (nel caso ne avesse uno). A scandalo scoperto, l’assessore alla Cultura di Roma, diede una risposta che, a posteriori, spiega abbastanza come mai Roma si trovi in queste condizioni. L’assessore era la signora Flavia Barca, sorella del più noto Fabrizio. “Roma – disse – è una città straordinariamente ricca e può capitare di passare di fronte a un’opera senza chiedersi il perché della collocazione. Vorrei cogliere l’aspetto positivo della provocazione, che in quache modo è una forma di street-art. La accoglieremo come capita anche con altre provocazioni, magari più accese». Prima che questo scenario potesse anche minimamente accadere, l’assessore venne pregato di lasciare il suo ufficio.

omaggio a mondrian visalli

Ma questa storia ha una sua morale, che si ricollega in qualche modo alla controversa vicenda del «Teatro di Burri» all’interno del Parco Sempione. Come fu possibile che quell’accrocco restasse due mesi in un posto incantato come il Circo Massimo, prima che qualcuno si accorgesse della beffa, facendo così scoppiare lo scandalo? Se vogliamo, qui c’è il grande dilemma dell’arte contemporanea, che vive generalmente su forme moderne, che appartengono alla collettività. Sì certo, ci fu senz’altro una forma di incuria, per cui nella disattenzione generale, nella sciatteria culturale generale, quell’”opera d’arte” resistette in quel posto tutto quel tempo. Ma ci fu sicuramente anche una parte di paradossale «rispetto», da parte di chi era forse meno attrezzato, verso un’opera d’arte purchessia. Una sorta di timore reverenziale che sovente blocca le nostre reazioni, di fronte a «performance» artistiche o che ci vengono spacciate come tali. Come se ci mancasse il coraggio, e con il coraggio anche le nozioni tecniche, per definire quella roba “una cagata pazzesca”. E questo, beninteso, non accade soltanto nel caso di patacche acclarate come quella del Visalli del Prenestino. No, questo gioco è un avvitamento perverso anche nel grande mondo dell’arte contemporanea, dove il terreno che separa un professionista serio e bravo da un professionista-patacca è ancora molto friabile.

Oggi sul Domenicale del Sole 24 Ore c’è un illuminante scambio di lettere tra un certo signor Alberto Ferruzzi, che si firma “Presidente Fondazione Perilparco” e Renato Palazzi che invece sostiene l’iniziativa del Comune di Milano di ripristinare il Teatro di Burri, nato per la Triennale del ’73 e poi “gentilmente” rimosso dalla giunta Pillitteri. La querelle la conoscete, e probabilmente le ragioni dei “parchisti”, che ne vorrebbero restituita la virginale prospettiva tra l’Arco della Pace e il Castello Sforzesco, superano (o ignorano) le ragioni dell’arte per sconfinare in quella visione liquidatoria secondo cui tutto ciò che può disturbare la purezza di quel corridoio d’aria e di cielo – da un chioschetto dell’Algida a un capolavoro di Burri – è senza ombra di dubbio da rimuovere se non, meglio, da abbattere. (sulla purezza, sulla prospettiva, sul blabla di persone che poco sanno, ci eravamo già cibati della polemica sull’Expo Gate di piazza Castello).

È straordinario, in effetti, il tono con cui questo signor Ferruzzi si rivolge al Sole 24 Ore e ai lettori del Domenicale. Palazzi, da parte sua, non era stato gentilissimo nel suo primo pezzo nei confronti di quei “presunti rappresentanti di cittadini che si arrogano il diritto di emettere un giudizio che può essere affidato solo ai posteri”, per cui il Ferruzzi gli pianifica cosa ha in mente la cittadinanza milanese: «Il “giudizio” cui allude l’articolo – scrive – è relativo al nostro proposito di ripetere ciò che la città di Milano ha già fatto nel 1989 e cioè di distruggere (testuale, ndr) quest’opera attraverso un crowdfunding che lanceremo a settembre, per violenza al paesaggio del Parco e il pericolo per l’incolumità degli utenti del Teatro».

Parlare in nome di una città è sempre un azzardo, perché poi magari ti volti indietro e non ti segue nessuno. Ma noi invece seguiremo con grande attenzione il signor Ferruzzi che vuole abbattere il Teatro di Burri attraverso un crowdfunding. Seguiremo lui e il suo popolo, in questa grande, indimenticabile, impresa, che definire artistica è sicuramente poco.

 

Il cretto di Burri e la fine dell’Umano, di Sergio Porta

La ricostruzione di una memoria, di Diego Terna

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