Milano

Chi ha vinto il dibattito al Dal Verme?

21 Gennaio 2016

L’esito “politico” del confronto dei quattro candidati alle primarie del centro sinistra a Milano è apparso chiaro già nel corso dell’evento, e appare condiviso dalla maggioranza dei commentatori del giorno dopo.
Si possono però prendere in considerazione diverse dimensioni: quella relativa al consolidamento della pratica delle primarie nella politica italiana (consolidamento al quale il buon esito della vicenda milanese potrà dare un contributo forse definitivo); quella della modificazione della ritualità politica, con l’introduzione dei dibattiti cosiddetti all’americana (che orgogliosamente Gianluca Semprini rivendica a Sky); quella dell’analisi politologica, che si interroga su quanto, dove e come influiscano questi eventi nel comportamento di voto, ovvero nel più importante, a mio giudizio, processo di affermazione e consolidamento della leadership.

Lascio ad altri questi ambiti e faccio qualche considerazione sull’efficacia comunicativa delle performance.
Il mio metro di misura è l’autenticità. Chi appare “credibilmente” autentico costruisce un legame di identificazione e fiducia con la platea, l’audience, il pubblico. L’autenticità in questo caso è la costruzione consapevole di una relazione. Si cercano scorciatoie cognitive, non ci si affida all’argomentazione logica. Assomiglia più che altro all’improvvisazione jazzistica: il frutto di un attento studio di frasi musicali che vengono ricomposte alla bisogna della jam session.

I pubblici però sono differenti: c’è quello della sala che vive in diretta l’evento, quello delle trasmissioni radio televisive che metabolizzano il messaggio in una condizione “domestica” e quello, infine, del grande pubblico (determinante per l’esito elettorale) che viene influenzato dal racconto dei media che interpretano l’evento e definiscono il clima d’opinione dal quale i comportamenti individuali non potranno prescindere. Si vincono partite diverse perché si giocano in diverse platee: si può perdere nel delimitato pubblico dei presenti in sala, ma vincere nel grande pubblico degli elettori. L’autenticità credibile (poco importa se vera, quindi) è quel comportamento che crea affidabilità, fiducia, identificazione. Quello che fa dire: mi fido, sto dalla sua parte.

Da questo punto di vista a me pare che PierFrancesco Majorino abbia avuto maggiore efficacia con il pubblico dei presenti in sala. Ha saputo usare le parole che aveva studiato, ha citato il libro di Pisapia (mostrando intimità e vicinanza), ha ripetuto più volte la parola radicalità e ha concluso con il più scontato topos retorico di sinistra: l’appello antifascista! La maggioranza degli applausi della sala sono stati i suoi. Fantastico il momento in cui Majorino si rivolge alla platea invitandola a non considerarsi una platea di tifosi e viene accolto da urla da stadio! Il link con i “suoi” – orgogliosi della loro identità – è stato sapientemente realizzato. Se il suo obiettivo era il confronto a sinistra con Balzani per la leadership dello schieramento anti-Sala è stato pienamente raggiunto.

Francesca Balzani a me è apparsa “sovrastrutturata”, brava ma un po’ troppo recitativa, quando s’è avventurata nel campo delle cose che evocano la città e la sua quotidianità, lo ha fatto sempre con un uso attento della voce e della sua modulazione, ma non ha evocato immagini nella mente delle persone. Non ha parlato per gli occhi, ha parlato per le orecchie. Una mamma (visto che spesso pubblicamente ha richiamato questa sua condizione) che sgrida con grande severità i figli ma parla dolcemente, non alza la voce, e cerca di convincerli che la punizione è per il loro bene. L’amara medicina, piace a chi pensa che la vita sia sofferenza e fatica!

Beppe Sala si tira fuori, sa di essere diverso dagli altri, non ha bisogno di distinguersi ma di farsi accettare. La sua cadenza vocale è in sintonia con Milano, può usare il dialetto. È impacciato quanto basta ma si capisce che ha vissuto momenti anche di maggiore emotività. Non perde l’aplomb e il suo look un po’ ordinario è coerente con l’idea di concretezza che trasmette con i suoi esempi (sempre un po’ troppo per addetti ai lavori). Non scalda mai la platea ma il suo pubblico non chiede quello, lo conosce. Le domande cattive poi gli permettono da un lato di farsi accettare nel club del centrosinistra e, dall’altro, di difendere con forza la correttezza dei dati del bilancio Expo. E qui emerge anche se solo per un attimo la voce dell’uomo capace di dirigere. E tutto in modo assai credibile anche se è ancora lontano da un uso efficace dei sound bite, le frasi corte e a effetto (con la piacevole eccezione dell’uso delle parole: innovazione e inclusione). Non cede all’encomio del Sindaco e parla con perfidia solo degli assessori che collaborano con lui. Poi, però, il freddo manager tira fuori il suo sogno dal cassetto, la riapertura dei navigli. E lo fa con cautela generando negli scettici più tenerezza che preoccupazione.

Last and least, Antonio Iannetta, che comunque ha raggiunto l’obiettivo di esserci. La sua prestazione, avendo un solo argomento su cui parlare, è stata l’antologia del tentativo di mettere in pratica le regole del public speaking. La captatio benevolentiae della platea e la richiesta di applauso per il Sindaco fino all’appello finale in cui ha cercato il coup de theatre abbandonando il leggio per raggiungere la ribalta e, richiamato al rispetto delle regole dall’ottima Adriana Santacroce, ha rivelato: “mi sposto da qua, entro in contatto con voi”. E così l’autenticità del gesto si perde, si spoglia il re. La regola dice che si persuade se non si appare intenzionati a persuadere!

In sintesi, tutti abbastanza “credibilmente autentici”, chi più, Majorino, e chi meno. Ma quella che ha perso di più è Francesca Balzani, che nella sua rincorsa a Sala sembra non essere riuscita a staccarsi dalla ruota Majorino.

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