Milano
Caro sindaco, quella firma l’hai messa per Milano e devi rivendicarla
La condanna a 6 mesi, commutati in ammenda da 45 mila euro, è di quelle che lasciano poche tracce dal punto di vista giuridico (e probabilmente nessuno dal punto di vista giudiziario, data la imminente prescrizione), ma lasciano cicatrici profonde dal punto di vista psicologico e politico.
È questa la sensazione immediata che si raccoglie leggendo le reazioni di Beppe Sala, che dice di vedere condannato “il mio lavoro, e di lavoro ne ho fatto tanto”, che ammette il prevalere dell’amarezza, e che garantisce che resterà sindaco per i prossimi due anni di consigliatura ma poi – aggiunge – non è in grado, non oggi, di guardare più in là. Un “più in là” che a Milano farebbe rima con secondo mandato e Olimpiadi, e fuori dai confini ambrosiani, addirittura, lo vede tra i papabili – forse il più forte, tra questi – per rivitalizzare nei panni del leader l’esangue schieramento progressista italiano. Oggi il 2021 e il 2026 sembrano, comprensibilmente, lontanissimi, a Sala, che sente messo sotto accusa, e anzi condannato, il capolavoro della sua vita, Expo 2015, che probabilmente non sarebbe stato realizzato senza quella firma su quel documento.
E proprio qui, però, si annida forse un cortocircuito che continua a lasciare perplessi. Sala viene infatti condannato – da solo, tra tutti i coimputati – per la retrodatazione di un documento da lui firmato. Un documento che non sposta l’attribuzione di un appalto da qualcuno a qualcun altro. Che non produce alcun illecito guadagno a nessuno, men che mai all’allora commissario di Expo. Un documento che però permette a Expo di partire, di esistere e di diventare l’evento a partire dal quale, poi, Milano diventa la città che è oggi. Cioè l’unica città italiana capace di attrarre investimenti ed energie positive. Sul modello Milano e sui dubbi che la definizione ci lascia, da queste parti, ci siamo espressi più volte. Qui però conta di più un’altra cosa.
La condanna di Sala, assieme all’assoluzione di tutti i coimputati, fa pensare che i giudici non solo non hanno creduto alla linea difensiva sostenuta dal sindaco dentro al processo – cioè quella di non ricordare esattamente di aver apposto la firma su quel documento con quella data – ma hanno creduto esattamente all’ipotesi opposta. E cioè che solo lui sapeva, e sapeva davvero. Del resto, è difficile pensare che un manager dell’esperienza e del carisma di Sala non presidiasse atti così importanti, anche se l’avvocato Scuto ribadisce invece che l’intenzione e la volontà del sindaco non siano state provate nel processo. Ma quand’anche il documento fosse arrivato “precotto” sulla sua scrivania, e quand’anche lui avesse solo “colposamente” firmato, non integrando quindi la fattispecie di reato che prevede il dolo, potrebbe mai Sala dire che si vergogna di aver permesso a Expo, con quella firma, di avvenire, e a Milano di essere quel che è? Crediamo proprio di no, e anzi immaginiamo che – se anche Sala avesse saputo tutto, come dicono i giudici – quella firma l’avrebbe messa, perché era in ballo un interesse ben superiore.
Ecco, forse, al di lá di ogni ulteriore considerazione giuridica e umana, e ben coscienti del fatto che col senno di poi e con le vite altrui siamo tutti bravissimi, c’è un nodo politico che andava sciolto prima. Rivendicando tutto quanto fatto, firme comprese, mettendo sul banco degli imputati della politica una norma cervellotica, e accettando serenamente una condanna giudiziaria irrilevante oggettivamente, e che sparisce davanti ai risultati ottenuti. Del resto, come ha ben detto un nostro concittadino:
“Non sono abituato a festeggiare le condanne altrui. Voglio leggermi gli atti. Da milanese sono orgoglioso di come è stato gestito Expo. Se c’è stato un errore verificheremo di che tipo di errore si tratta, però mentre a sinistra di solito festeggiano le sentenze contro tizio e contro caio, io da milanese non festeggio se il mio sindaco viene condannato”.
Questo concittadino, naturalmente, si chiama Matteo Salvini.
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