Milano

Cari democratici milanesi, non volete Sala? E allora fate battaglia politica

31 Ottobre 2015

Sono giorni in cui, a Milano, si dicono e si ripetono parole antiche, eppure mai passate di moda. È infatti almeno dagli anni Novanta che a ogni elezioni, dal condominio alla presidenza della Regione, qualcuno ha la bella idea di gettare nella mischia la “società civile”, un manager, un imprenditore, qualcuno insomma che non esca da quell’anticaglia sinonimo di ruberie e/o fanullonerie che erano i partiti politici. Il peccato originale, naturalmente, è stato Tangentopoli e l’incapacità di difendere in modo convincente la politica come spazio alto di competenze, capacità ed esperienze che rappresentano interessi veri e sani. Proprio quell’inchiesta che a partire da Milano – già “capitale morale” e ora in via di riammissione a potersi fregiare del titolo onorifico – finì con il radicare a Milano, molto più che altrove, l’idea che servisse la società civile, i-non-politici-di-professione, per governare bene in nome dell’efficienza e dell’onestà.

Al di là dei risultati che questo processo ha generato, a prescindere dalla qualità del ceto e della classe dirigente che così si è prodotta, il mito della società civile al potere è sicuramente servito ad accorciare decisamente la catena tra interessi economici e potere politico. Quando esistevano i grandi partiti novecenteschi, le forze del capitale – l’ambientazione novecentesca ci consentirà qualche arcaismo senza che nessuno si offenda – sapevano che dovevano relazionarsi con strutture comunque solide, magari pachidermiche ma certo rappresentative di interessi diversi, ora opposti ora assonanti. Ma insomma, la dimensione strutturale degli interessi economici e quella sovrastrutturale della rappresentanza politica esistevano, si generavano, si contaminavano, in ogni caso erano obbligate a parlarsi e a mediare. Il ciclone Tangentopoli, arrivato in Italia subito dopo la caduta del muro di Berlino e di ogni residuo velleitarismo comunista, distruggendo di fatto la politica e le sue strutture portanti, finì con l’assegnare ai vari poteri economici la possibilità di rappresentarsi direttamente, quasi senza mediazioni. Berlusconi fu evidentemente il caso più plateale, clamoroso, ma la tendenza non riguardò solo lui, né solo il suo schieramento. Ad ogni livello, il centrosinistra è stato, spesso e volentieri, mero portatore di interessi economici diretti più o meno sani, più o meno legittimi, e spesso e volentieri per nulla mediati: come ci si aspetterebbe invece dalla politica in generale, e da quella di sinistra in particolare.

E insomma, “società civile” e “poteri” sono forse le due parole che tornano di più, nelle conversazioni private che si tengono, in questi giorni, a Milano, attorno al tavolo del futuro politico della città che vede ormai in dichiarata pole position, come candidato sindaco del centrosinistra, il commissario unico di Expo e Amministratore Delegato Giuseppe Sala. Di lui, in tanti che in questi giorni guardano alla vicenda e hanno nostalgia della politica, dicono spesso e volentieri che “rappresenta certi poteri”, o che li garantisce. E non c’è dubbio che sia così: perché ha dimostrato, nonostante difficoltà e scandali e fatiche, di saper far rispettare i tempi di una grande opera, di essere riuscito a “a portare a casa” risultati almeno decenti. Questi anni hanno indubbiamente rafforzato il suo bagaglio relazionale – giù ottimo prima, invero – sia italiano che estero. Sulle partite del dopo Expo, soprattutto quelle urbanistiche e immobiliari, può garantire più di altri sia l’industria della finanza (le banche) che quella del mattone, particolarmente debilitata dopo anni di vacche troppo grasse e di una crisi più grande perfino di certe insensate linee di credito. Insomma, è piuttosto chiaro che il n0me di Sala sia il più gradito a quei poteri e a quegli interessi, e sia inoltre in perfetta continuità con la storia, il mito, la favola, se volete, della “società civile”. È un manager, moderato ma senza essere conservatore, ma soprattutto è un “realizzatore”: ha fatto delle cose, risolve dei problemi, e sanerebbe anche una serie di grane politiche. Con ogni probabilità, sarebbe un buon sindaco: quantomeno, ha tutte le carte in regola per. Poi piace a Renzi, e questo sembra bastare a far sì che i mugugni, le lamentele, i fastidi per questi “poteri” restino tali. In silenzio.

Ecco, forse i democratici e il centrosinistra milanese, che tanto hanno rivendicato il loro modello, e il fatto che a Milano con Pisapia, frutto delle primarie, aveva vinto la politica, dovrebbero avere la forza e il coraggio, se davvero ritengono di poter dire la loro in piena autonomia, di dire apertamente, serenamente, tranquillamente di no. O meglio, di sfidare a viso aperto il partito nazionale, cioè Matteo Renzi, e le sue scelte, la sua benedizione a Sala, gli interessi che da lui si sentirebbero più garantiti, per rivendicare appunto il proprio modello, la forza di quanto costruito. Chi dovesse farlo, chi dovesse lanciare davvero questa sfida, corre ovviamente il rischio di perdere e – metodi romani alla mano – anche il rischio, forse, di trovarsi ai margini della scena, sfottuto e definitivamente laterale, che il renzismo tende a non garantire spazi vitali a nemici anche solo potenzialmente letali. Ma è il rischio di chi fa politica, prendersi sfide difficili e provare a vincere. Altrimenti, rivendicando in privato la propria alterità e poi accettando supinamente quel che si decide lontano da Milano in pubblico, si finisce col confermare, anzi, col rafforzare la supremazia della cosiddetta “società civile” e, anzi, dei tanto temuti poteri. Che, se non li si vuole egemoni, vanno sfidati e sconfitti rappresentandone di altri, o incarnando mediazioni più avanzate. È la politica: o almeno, noi l’avevamo capita così.

 

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