Economia civile
Cambiare le organizzazioni per fare spazio alla sussidiarietà
La scuola dei quartieri recentemente lanciata dal comune di Milano è un banco di prova non solo per i cittadini che, come recita la missione della scuola, “intendono far nascere progetti e servizi utili a migliorare la vita dei quartieri” con l’obiettivo di “cambiare le periferie della città”, ma anche per le organizzazioni di terzo settore che in questi stessi territori lavorano già da tempo occupandosi di attività sportive, ricreative, culturali, assistenziali, ecc. Sì perché la sfida per “il sociale organizzato” è di posizionarsi rispetto a una politica che, al fondo, mira ad allargare che a diversificare il suo campo di azione attraverso il sostegno alla nascita di nuovi soggetti associativi, ma anche (e forse soprattutto) incorporando in maniera più esplicita elementi di valore sociale dentro iniziative economiche e commerciali che in questo modo reinterpretano il loro carattere di prossimità rispetto ai contesti in cui operano.
A questo meccanismo possono essere dati due nomi dagli accenti molto diversi. Il primo, molto in voga in questa fase storica, è disintermediazione che viene solitamente attribuito a innovazioni sociotecnologiche caratterizzate da intenti disruptive rispetto all’esistente e che, fra l’altro, trovano nell’ambito urbano un importate campo di applicazione. Basti pensare alla mobilità, all’abitare, al turismo. Certo le modalità sono molto diverse, se non altro perché, nel caso della scuola, il soggetto pubblico agisce come policy designer e non semplicemente regolando ex post un mercato che ha preso forma forzando la regolazione esistente. Però tra le organizzazioni e gli operatori sociali potrebbe farsi strada la sensazione che questo “farsi da parte” li riduca come i taxisti rispetto a uber o i gestori di hotel rispetto ad airbnb. Sostituiti, o messi in secondo piano, da “cittadini che fanno la città” – come recita quasi minaccioso visto da questa angolatura lo slogan della scuola – agendo singolarmente oppure associandosi ma lungo uno spettro decisamente più ampio rispetto a quello delle tradizionali formazioni nonprofit: dall’informalità fino a iniziative imprenditoriali, anche di tipo for profit seppure con un chiaro impatto sociale. Questa peraltro è una tendenza che caratterizza non solo l’iniziativa milanese, ma anche altri dispositivi diffusi in molti comuni italiani come i patti di collaborazione che la pubblica amministrazione sigla con cittadini attivi per la cura dei beni comuni.
C’è però un secondo nome che può essere dato a questo meccanismo: sussidiarietà. Anche questo è un termine diffuso soprattutto tra addetti ai lavori e rappresenta una delle poche riforme costituzionali avviate negli ultimi trent’anni e davvero attuate, non solo a livello di principio. L’articolo 118 della Costituzione recita infatti che “Stato, Regioni, Città metropolitane, Province e Comuni favoriscono l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale” e quindi rappresenta un importante aggancio non solo normativo ma anche politico-culturale che ha ispirato la recente legge di riforma del terzo settore. La sussidiarità però non è solo un principio, come del resto molti altri contenuti nella nostra legge fondamentale, ma è un modus operandi che richiede di essere costantemente agito e, per certi versi, rigenerato nel tempo e nelle modalità attuative, richiedendo agli stessi soggetti di terzo settore (e non solo a quelli pubblici) di farsi parte attiva. In sintesi: il terzo settore non è solo beneficiario ma anche attuatore della sussidiarietà, in particolare quei soggetti come fondazioni, associazioni, imprese sociali che nel tempo hanno assunto una strutturazione importante sia a livello di offerta di beni e servizi, sia a livello di dislocazione territoriale.
Quella che può apparire una semplice disputa terminologica, è in realtà una questione strategica e gestionale legata a due temi: la gestione del cambiamento organizzativo interno e le modalità di accompagnamento all’innovazione sociale emergente.
Sul primo fronte si possono aprire modaltà interessanti non solo per “ripulire” organizzazioni sociali sempre più grandi e complesse rispetto a una molteplicità di progetti e iniziative che a volte faticano a trovare una loro chiara collocazione all’interno di processi di erogazione e di governance, rimanendo così confinate in un limbo di sperimentalità che rischia di essere fine a se stesso piuttosto che orientato a obiettivi intenzionali di trasformazione sociale. Forse la strategia dell’incorporare “di tutto e di più” in un singolo soggetto organizzativo può essere sostituita da un meccanismo di abilitazione, simile a quello delle piattaforme, che agisce attraverso azioni di spin-out, ovvero di affidamento di attività incubate da organizzazioni di medie e grandi dimensioni a favore di cittadini che stanno provando a fare cose simili. Una modalità diversa, e molto specifica, di impostare e gestire le proprie strategie di crescita attraverso processi di scaling che perseguono la missione andando oltre il proprio perimetro organizzativo.
Sul secondo fronte si colloca la sfida di immaginare una nuova nuova intermediazione sociale attraverso nuovi corpi intermedi. Soggetti che occupano una posizione mezzanina capace di cogliere e di assecondare le dinamiche dal basso senza però rinunciare alla sfida di intercettare risorse che procedono in senso top down e che nel caso delle politiche sulle periferie urbane sono molto evidenti sia in ambito pubblico che privato. A livello di servizi invece i nuovi corpi intermedi appaiono sempre più come soggetti capaci di ibridare funzioni diverse. Sono un po’ supporter dell’azione collettiva (volontariato, associazionismo, cooperazione), un po’ agenzie tecniche che lavorano a scavalco di ambiti di politica spesso molto diversi e un po’ struttura di servizio per un’imprenditorialità che ormai trova nella dimensione d’impatto sociale un fattore costitutivo a prescindere dalla forma giuridica.
Altro che disintermediazione quindi. La scuola dei quartieri – e altre iniziative simili – possono aprire una nuova stagione di sussidiarità consapevolmente costruita anche da parte del terzo settore.
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