Milano
Bob Marley a San Siro, e Milano non fu più la stessa: Redemption song
In ogni nazione, in ogni città, in ogni vita ci sono degli eventi che ne cambiano la storia.
Cesare che varca il Rubicone, la presa della Bastiglia da parte del popolo, l’uccisione dell’Arciduca a Sarajevo, la fine della II Guerra mondiale, la pubblicazione della Teoria della relatività, il 4 luglio e la Dichiarazione d’Indipendenza.
A questi eventi, per uno della mia generazione (e anche per qualcuna di quelle precedenti), è stato impossibile partecipare.
Per fortuna c’è anche l’altra storia, quella del rock, più recente ma altrettanto ricca di date importanti, e per queste qualche chance in più l’abbiamo avuta.
Musica e leggenda a Milano si coniugano in una giornata, unica e indimenticabile, il 27 giugno del 1980. In quella data Bob Marley, si quel Bob Marley, suonò a San Siro.
Niente di paragonabile era mai successo, in Italia, prima di quella volta.
Erano anni durissimi, quelli di piombo, ai concerti c’erano violenze, contestazioni politiche, atmosfere pesanti (i Led Zeppelin,ad esempio, al Vigorelli non poterono suonare) e i grandi nomi non venivano a esibirsi in Italia.
Il 27 giugno il tabù fu violato e 100.000 fiammelle, come avrebbe scritto Antonello Venditti, erano la ad aspettare lui, in un happening fatto di tanti ingredienti: il reggae, il fumo, il caldo, la giovinezza, la gente, l’amore fraterno, lo stadio strapieno, i colori di un’estate accesa e caldissima, ma anche la genuinità. Non c’erano palchi galattici e effetti stratosferici, c’era, però, tutto il resto. Ovvero noi, il pubblico. Variegato e capellone.
Ho avuto la fortuna, al tempo ancora inconsapevole, di partecipare alla storia. Io c’ero e quello nella foto è il mio biglietto. Il tagliando era per il concerto ma era anche il mio lasciapassare per l’adolescenza; avevo finito gli esami di terza media da una settimana ed ero li insieme al mio amico Paolo, allora eravamo inseparabili, a respirare (passivamente) fumi naturali di varie nazionalità: marocchino, pachistano, maria, afgano, nero, etc. Tutta roba pagata qualche scudo e cremata da quelli più grandi di noi.
Io, non mi azzardavo a chiedere niente a nessuno e non sapevo manco bene cosa fossero tutti sti nomi, tutti sti castelli, sti biglietti del tram arrotolati, tutte ste cartine. Sebbene, ognuno degli spettatori ne avesse in mano qualcuno.
Vedevo individui che erano presenti con il corpo, mentre non si capiva dove fossero finite le loro facoltà discriminanti.
Bob, per tutti, era una specie di divinità, tra il laico e il religioso, e fumava e la sua presenza sembrava poter assolvere tutti quello che lo stavano facendo in quello stesso momento.
La partecipazione a quel concerto è stato un vero e proprio rito di passaggio antropologico. Un’educazione sentimentale. La mia vita dal giorno dopo sarebbe cambiata, mi aspettavano il liceo e il Milan in B.
Quell’esibizione è rimasta talmente impressa nella storia di Milano che, se si dovesse credere a tutti quelli che negli anni successivi hanno detto di aver partecipato, non basterebbe tutta la pianura padana per farceli stare.
Ero in campo a pochi metri dal palco, lì sono stato tutto il pomeriggio e da lì ho visto Roberto Ciotti (colui che poi scrisse musiche di Marrakech express), Pino (Daniele) nel suo periodo migliore, quello di Nero a Metà e di “E fermati un momento e dimmi dove sei, io vado controvento e non ti aiuterei” e il gruppo funky Average White band.
La giornata era infinitamente lunga e il buio, e con lui Bob, non arrivava mai.
Luci spente, brusio di sottofondo e poi il boato: Medusa Marley and The Wailers erano sul palco, tutti sono impazziti e io, che al tempo non ero tanto alto, ho dovuto abbandonare il casino del prato.
Dalle tribune eravamo più lontani ma al sicuro.
L’Africa era al centro, i colori sgargianti dei vestiti delle I Threes e la musica, All friends we have all friends we lost along the way, era entrata nelle ossa e vibrava nella pelle.
Tutto si era svolto con grande ordine, semmai a stupire era stata l’ignoranza (nel senso di non conoscenza) da parte dei media di quel fenomeno, sì giovanile ma ricchissimo di implicazioni come il riscatto, la pace, la leadership politica di un paese come la Giamaica martoriato dagli scontri, la protesta, la dottrina Rasta. Di tutto ciò, ricostruendo la cronaca di allora, non c’era il benché minimo segnale.
Il 1980 è stato un anno di cambiamento, a San Siro si consumava qualcosa che era ancora figlio degli anni 70, della controcultura (se proprio dobbiamo cercare delle etichette grossolane) mentre il decennio successivo sarebbe stato quello del riflusso e con altri temi sociali al centro della scena.
Solo 5 anni dopo ci sarebbe stato il Live Aid, altra tappa fondamentale per la mia generazione: i due eventi, tra di loro così vicini, sembrano invece distanti anni luce (almeno dal mio punto di vista) se pensiamo alla percezione del clima culturale dei due periodi.
Bob ha segnato le storie personali di tutti quelli che quel giorno erano sul prato e sugli spalti, quella fu la sua ultima tournée (trionfale, ma l’ultima); l’anno dopo morì per un cancro alla testa. Ma, come Obi wan Kenobi, la sua morte lo ha reso ancora più potente, più grande. E oggi è amato anche da chi non era neanche nato quando si esibì a Milano.
Nessuno dei concerti che sono venuti dopo ha avuto quell’atmosfera immanente, spirituale, di positive vibrations, unica e meravigliosa.
E a San Siro ce ne sono stati di memorabili, come il Boss nell’85, David Bowie, i Rolling Stones con la Coppa del Mondo, Dylan e tanti altri (ad alcuni di essi ero presente) ma come quello nessuno mai.
E l’unico per cui è un orgoglio dire: io c’ero è, per me almeno, quello di Bob Marley da Trenchtown.
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