Lavoro
Beppe Sala e quelle parole fantozziane sullo smart-working
Stanno facendo discutere le dichiarazioni del sindaco di Milano Beppe Sala, secondo il quale lo smart-working sarebbe “una grande occasione”, ma rischia anche di “aumentare la possibilità che posti di lavoro vengano tagliati. Anche di chi oggi è in smart-working”. Concetto più volte ribadito in questi giorni sia sulla stampa che nelle interviste televisive: “tornate in ufficio e presidiate la vostra scrivania”, insiste il sindaco, “perché al rientro delle ferie i datori di lavoro potrebbero accorgersi che non c’è più bisogno di voi”.
Al netto delle reali preoccupazioni del primo cittadino della città più dinamica d’Italia, che vorrebbe rivedere Milano brulicare di vita e di consumi – a partire dal mercato delle pause pranzo oggi in grave sofferenza proprio per il lavoro da casa – è opportuno chiedersi se lo smart-working possa davvero aumentare il rischio di licenziamento, semplicemente perché non ci si fa vedere in azienda. Perché è questo il punto centrale del ragionamento di Sala: meno si va in ufficio, più è facile che, in tempi di crisi come questo, l’azienda possa abituarsi a fare a meno di noi.
Si tratta però di un’ipotesi senza aggancio con la realtà. Premesso che mancano i dati, sia a favore che contro la tesi (siamo ancora all’inizio di un fenomeno dirompente), è lecito domandarsi come mai un imprenditore dovrebbe privarsi di un collaboratore efficiente e produttivo, che magari lavora da casa, e al contrario mantenere in servizio un dipendente svogliato e poco produttivo, soltanto perché si fa vedere tutti i giorni nei corridoi. Se sposiamo l’ottica del lavoro per obiettivi, che è “condicio sine qua non” per un vero smart-working e non semplicemente un telelavoro, sfugge totalmente il motivo per cui il semplice scaldare la sedia in ufficio dovrebbe aiutare a conservare il rapporto di lavoro.
Perché attenzione: qui non si sta neppure parlando di maggiori possibilità di carriera, benefici accessori legati alla visibilità, e aspetti correlati in maniera più o meno eufemistica al presenzialismo ostentato: se avesse parlato di questo, Beppe Sala avrebbe anche detto qualcosa di vero, per diverse realtà. Invece ha parlato della sicurezza del posto di lavoro, ovvero del rischio di licenziamento. Ed è qui che il teorema cade, perché se la crisi è talmente pesante da indurre un imprenditore a licenziare, la scelta di chi tenere e chi no avverrà nella quasi totalità dei casi sulla base del merito e della professionalità, e non del conteggio delle timbrature.
A meno che non si sposi quell’altro, purtroppo diffuso, pregiudizio per cui lo smart-working equivalga di per sé alla vacanza. Se si pensa questo, e soltanto se lo si pensa, allora sì, conviene tornare in ufficio, perché, si sa, le aziende non amano pagare gente che fa finta di lavorare. Ma è ormai chiaro che un simile pregiudizio, tanto per il privato quanto per il pubblico, è totalmente infondato, come dimostrano moltissimi studi e ricerche sull’aumento della produttività dei lavoratori in smart-working legato a una maggiore responsabilità individuale, a una migliore conciliazione tra vita e impegno professionale, al risparmio dei tempi per gli spostamenti.
Per dirla tutta, facendo ancor più propria un’ottica aziendale mirata al risparmio monetario in tempi di “magra”, far lavorare da casa i propri collaboratori porta anche una non irrilevante riduzione dei costi delle utenze energetiche (si pensi non solo ai pc, ma anche al riscaldamento/condizionamento degli ambienti), e, in prospettiva di medio-lungo termine, anche minori costi d’affitto, poiché spazi pensati per ospitare in contemporanea l’intero organico potrebbero risultare un domani eccessivi. Quindi l’azienda non solo ci guadagna in termini di maggiore produttività dei lavoratori, ma anche ci risparmia a livello di facility.
Per tutti questi motivi, le parole di Beppe Sala suonano davvero troppo subdole e rimandano più a scenette da film di Fantozzi che alle tante esperienze virtuose di questi mesi. Se l’obiettivo è salvare i bar e ristoranti che facevano affidamento sulle pause pranzo, si tratta di un’istanza più che legittima soprattutto per il sindaco di una metropoli. Ma la partita va giocata apertamente, senza insinuare sospetti infondati tra gli stessi lavoratori su presunti rischi di licenziamento. Le aziende non sono masochiste, e in caso di necessità non avrebbero dubbi su chi merita affidamento, indipendentemente da dove “fisicamente” preferisca svolgere le proprie mansioni.
Per fortuna, molto più che le parole del sindaco, contano i riscontri delle realtà che in questi mesi hanno sperimentato lo smart-working, restandone in alcuni casi sorprese e nella gran parte entusiaste. E questo succede oggi, durante una emergenza: figuriamoci domani, quando i meccanismi saranno entrati a regime.
Checché ne possa pensare Sala, uno smart-working davvero intelligente, che lasci la libertà al lavoratore di organizzarsi con responsabilità, senza incatenarlo né alla scrivania dell’ufficio né al tavolo della cucina di casa, porta valore a entrambe le parti, in una logica win-win.
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