Milano
Alcune considerazioni sugli scali ferroviari di Milano
A Milano è rientrata nel vivo, dopo la bocciatura sul finire della scorsa consiliatura, la discussione sul futuro degli scali ferroviari milanesi e sulla loro riconversione. È indubbio che si tratta di una discussione di grande rilevanza, non solo per Milano e la sua area metropolitana, ma per tutto il Paese; si tratta infatti, a mio parere, non solo di una straordinaria occasione per pensare alla visione di Milano da qui a trent’anni, ma anche di un altrettanto straordinario momento per provare a ideare a nuovi percorsi e processi di rigenerazione urbana.
La dimensione degli scali ferroviari milanesi (ai quali, è bene ricordarlo, si aggiunge anche la dimensione delle varie caserme dismesse), la loro ubicazione e la loro intrinseca correlazione alla rete del trasporto su ferro li rendono oggetto di un “piano strategico di rinascimento urbano” per Milano. È altresì indubbio che tale questione divenga anche una significativa opportunità di dibattito pubblico sulla città e sul suo divenire.
L’auspicio è che si lascino da parte approcci prettamente teorici o ideologici e si affronti tale sfida con un approccio limpido e pragmatico. A tale proposito propongo alcuni spunti di riflessione.
Primo: fare tesoro delle esperienze passate. Spesso si vedono progetti su grandi aree in rappresentazioni così realistiche e immaginifiche da apparire come concreti. Ma non è più tempo di illusioni da rendering; è tempo di fare sempre i conti con il principio di realtà. Così come non basta appellarsi a cataloghi di esperienze estere di successo per delineare percorsi simili per Milano. Per tracciare una strada meno tortuosa penso si debba quindi fare anche un esercizio di analisi con le esperienze del (recente) passato che hanno interessato Milano. Guardando ai grandi piani di recupero di aree dismesse della nostra città, possiamo infatti comprendere anche cosa non è funzionato e quali sono i nodi da districare quando si affrontano trasformazioni di questa scala. Se non vi è la presa di coscienza di tale fatto, che ha portato ad avere situazioni di degrado urbano di nuova formazione, si rischia di replicare se non dei fallimenti, delle potenziali – e pericolose – incompiute.
Secondo: progettare i processi. Da quanto sopra detto discende il fatto che si rende necessario non solo fare grandi progetti urbani e architettonici, ma anche – e soprattutto – disegnare i processi attuativi di tali progetti. Se trasformazioni di questa portata entrano in una dimensione attuativa perseguita con gli strumenti ordinari, siamo al tracollo preventivo. Sia chiaro: ciò che si auspica non è una straordinarietà attuativa “emergenziale”, foriera di disastri ancora peggiori, bensì una vera sperimentazione di nuove e più efficaci modalità attuative per una vicenda di questa portata.
Terzo: il ruolo del pubblico deve essere centrale. Una trasformazione urbana come questa, fatta tra l’altro su aree che derivano (nonostante oggi il “sistema ferrovie” si concepisca – e sia – “privato”) da una inconfutabile genesi pubblica, non può prescindere da una forte impronta, per l’appunto, pubblica. Per questa ragione, senza nulla togliere alla rendita generabile dalla trasformazione di tale aree, è necessario che il ruolo del decisore istituzionale nel processo e dello spazio pubblico nel progetto siano centrali. Senza un’armatura collettiva sia nel processo, sia nel progetto, non si avranno mai dei luoghi generatori di urbanità, di qualità urbana e – quindi – di vitalità sociale ed economica.
Quarto: inserire la categoria del “tempo” nel percorso di trasformazione delle aree. Il tempo è un fattore centrale per le trasformazioni urbane. È però inimmaginabile pensare alla trasformazione più o meno contemporanea di queste aree; chi lo facesse prenderebbe in giro se stesso e chi gli sta attorno. Orbene, senza voler tornare a quelli che una volta si chiamavano PPA (Programmi Pluriennali di Attuazione), figli di una stagione urbanistica confinata (purtroppo?) all’oblio, si rende necessario immaginare una gerarchia chiara di priorità nell’attuazione delle differenti aree in gioco. Tale gerarchia determinerebbe anche una tempistica attuativa con previsioni più realistiche, che consentirebbe sia una maggiore chiarezza per potenziali investitori, sia il coinvolgimento dello stato nella infrastrutturazione preventiva delle aree.
Quinto: coinvolgere lo stato nella infrastrutturazione preventiva delle aree. Correlando i punti terzo e quarto si può immaginare che – definiti i progetti urbani di trasformazione delle aree, ossia i masterplan e facendo tesoro di quanto si è detto al punto primo, essendo la dotazione di infrastrutture pubbliche e servizi la vittima prima dei grandi piani di trasformazione urbana – penso si possa immaginare il coinvolgimento finanziario dello Stato per svolgere il ruolo di anticipatore/realizzatore delle infrastrutture pubbliche strategiche per le aree poste in attuazione. In questo modo da un lato gli investitori/sviluppatori/realizzatori si troverebbero ad acquisire lotti funzionali o intere aree già dotate delle infrastrutture e dei servizi di base, dall’altro il Comune abbasserebbe il rischio di trovarsi – alla fine del processo – devastanti situazioni di case (e abitanti) senza i servizi e lo Stato recupererebbe poi quanto investito con gli interessi. È un’ipotesi fantasiosa, ma che ritengo possa essere uno dei fattori di successo (o insuccesso) di tale percorso rigenerativo.
Sesto: coinvolgere energie nuove nella progettazione. Se è comprensibile il coinvolgimento di architetti di fama nella progettazione generale, immaginando che siano scelti anche e soprattutto per la loro capacità di dominare progetti di disegno urbano complesso (che è cosa non sempre sovrapponibile alla maestria nella progettazione architettonica), è fortemente auspicabile attivare percorsi concorsuali che coinvolgano anche energie fresche e vitali che ci sono tanto a Milano, quanto in Italia o nel mondo. Insomma: questa può essere un’occasione per scoprire e lanciare anche giovani talenti!
Settimo: fare i conti con le condizioni contingenti (e di prospettiva) del mercato. La questione di quali siano le funzioni insediabili in questa massa di superficie edificabile resta “La questione”. Il mercato immobiliare persiste nella sua debolezza – anche se Milano vive una particolare situazione di vitalità – e, soprattutto, non si può immaginare alla funzione residenziale come panacea risolutiva di ogni progetto. Rispetto alle case, infatti, è bene chiedersi per chi si costruiscono, come si costruiscono, quante se ne costruiscono e in che tempi. La residenza ha senso solo in una relazione simbiotica con tutte le altre funzioni inespiabili e se ci sono le persone interessate (e con le disponibilità) per andare in queste case; di per sé – si chiami essa social housing, edilizia convenzionata o altro – su una siffatta quantità di volumetria realizzabile non è immediatamente ipotizzabile che vi sia una significativa capacità di assorbimento, soprattutto se – come sopra detto – non si delinea un chiaro quadro di priorità attuativa.
Ottavo: fare della qualità urbana l’obiettivo centrale. Qui nulla va aggiunto, perché questo obiettivo – che dovrebbe stare in testa – è l’ambizione a cui si deve tendere, per posizionare Milano come avanguardia europea di una urbanità originale, capace di essere sintesi tra la vitalità “latina” insita nella storia delle nostre città e la contemporaneità delle più vive e attrattive metropoli europee.
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