Milano
Addio Milano (un po’ meno) bella
Ha chiuso il Pont de Ferr, uno dei pochi presìdi di civiltà estetica ed enogastronomica nella teoria dei locali di merda che sono diventati i Navigli. Ha chiuso anche per questo, oltre che per comprensibile e umana stanchezza (era aperto dal 1986), ma fa un po’ impressione, soprattutto perché, nove su dieci, al suo posto andrà un altro locale di merda, con la durata media (18 mesi) dei locali-progetto fatti per fare un po’ di soldi approfittando dei ricarichi spaventosi che si possono applicare ai cocktail scadenti nelle zone della movida. Il destino di Brera e dell’Isola è il medesimo.
Per chi ancora vive questa città anche da flâneur, percorrendola a piedi, con lentezza, e guardandola trasformarsi e riprendere il ritmo nell’era post-Covid, lo spettacolo non è edificante. Per ogni esercizio commerciale che ha chiuso, locali storici, negozi di quartiere, persino banche, ha riaperto qualcosa di più cheap, quasi sempre legato al cibo. Il piano strada di Milano è diventato un gigantesco stomaco, che invade i marciapiedi con le aperture generalizzate dei dehors.
Nutrono le pause pranzo e il divertimento dei city user, che sono tornati a lavorare e a consumare, avendo la città domato la paura di un generalizzato e permanente smart working. Sono in gran parte giovani questi utenti della città, sui cui consumi (poke a pranzo, aperitivo a cena) sembra essersi orientata gran parte dell’offerta commerciale, e dunque in parte estetica e culturale, di una città in cui una volta si mangiava molto bene e soprattutto che sembrava, anche nell’ethos generale mercantile e produttivista, mantenere sacche di poesia che oggi sono o mercificate o scomparse (o prossime a essere abbattute, come San Siro).
La città, in cui i prezzi del mattone sono tornati a correre, sollevando preoccupazioni che sono destinate a peggiorare con le Olimpiadi, pare aver mollato sull’idea di essere un luogo piacevole da vivere, avviandosi, come la maggioranza delle metropoli globali, ad essere un luogo in cui è utile stare, magari non per sempre, o in cui vivere solo se ce lo si può permettere.
È utile starci per chi ha un lungo futuro davanti, studenti universitari, stagiaire, junior qualcosa, accomunati dall’aspettarsi qualcosa da Milano. Sono loro, il loro nomadismo, la loro precarietà i modelli su cui è ricalcata l’offerta ormai quasi unica delle zone della movida. Qualcuno di loro, per meriti propri o condizione familiare, riuscirà anche a fare il salto ed entrare nella seconda categoria di utenti privilegiati della città: i molto ricchi. Così ricchi da potersi permettere di vivere nella città senza trasformare l’investimento nella casa in un ergastolo che rende tutti più precari, poveri, spaventati, immobili e conservatori.
Queste categorie spendenti di utenti della città hanno bisogno di una classe inferiore che li disseti, li sfami, li tenga puliti e li curi in malattia e vecchiaia. Versione minore dello studente che viene a Milano dal Sud è l’immigrato che si ammassa ai suoi confini per speranza o disperazione, venendo da posti in cui si sta peggio e con l’obiettivo di essere digerito dal grande stomaco urbano, anche in forma di sasso che vuole interrompere flussi di benessere a cui non partecipa.
Chi sta fuori da queste categorie, nella maturità per età e in mezzo come classe sociale e di reddito, oggi a Milano è fuori posto. C’è ovviamente il tema del lavoro, fondamentale, ma fa ancora parte del do ut des tra città e suoi utilizzatori, che possono essere spinti molto lontano dai nuovi quartieri tutti legge della domanda e dell’offerta.
Si dirà che “è il mercato, bellezza” e certamente lo è. Milano è “the place to be”, dove costruire e, potendoselo permettere, comprare con i risparmi e la liquidazione una casetta per il figlio che viene a studiare, tanto poi al massimo la affitti, tanto la domanda è sempre alta.
Tuttavia, gli ultimi anni ci hanno spiegato in tutte le lingue che quel mercato che sembrava intoccabile è in realtà non solo possibile toccarlo, ma periodicamente bisogna anche fargli la respirazione bocca a bocca perché o non ce la fa da solo and andare avanti o, peggio, si crea da solo le condizioni per incartarsi. Quindi bisogna fermarsi, o almeno rallentare, e introdurre qualcosa che accompagni o modifichi gli eventi e faccia ripartire la macchina. Vale per il capitalismo verde, che sta contribuendo keynesianamente alla ripartenza dell’economia, vale per il post- pandemia e varrà a lungo, almeno per la durata di questa fase di liberismo temperato in cui siamo saldamente calati.
Allora facevo una riflessione cercando vanamente di parcheggiare l’auto elettrica del car sharing (non la possiedo, mi muovo a piedi, in bici o con i mezzi pubblici ma detesto l’ideologia indipendentemente da quante ruote e che propulsione abbia) sotto casa a Citta Studi, per le vie trasformate in boulevard con le panchine dove una volta erano le auto: lo spazio in cui mi stavo muovendo era una colossale manomissione delle leggi del mercato.
L’attuale amministrazione comunale, che ho votato e sostenuto, persegue l’obiettivo di eradicare le auto private dalla città, offrendo alternative valide per la mobilità (di quasi tutti) e rendendo il possesso e l’uso dell’auto privata costoso, spiacevole, in futuro anche vergognoso. Dove si è voluto, la politica ha piegato e orientato il mercato. Bene.
Funziona solo per i temi sulla punta della piramide di Maslow?
Oggi questa tensione sul rendere Milano una città nella quale a girare in bicicletta non siano solo studenti, sciüre e rider, ma anche la famosa ed evanescente classe media non si percepisce. Non si tratta solo, sarebbe già qualcosa, di sottrarre alla voracità dei mattonari qualche cubatura da mettere a disposizione a prezzi controllati, ma di intervenire sulle variabili della città che la connotano, incluse le teorie di locali di merda che rovinano i quartieri, e ovviamente il lavoro.
Cosa ne è di quei ragionamenti sul lavoro buono per la classe media che sostenevano i progetti per il rilancio della manifattura in città? Questa amministrazione ci crede ancora?
Spero di sì, io ci credo un bel po’ meno. O meglio, credo che anche i luoghi in cui vivere facciano il loro tempo e, come Angela Finocchiaro e Dargen D’Amico, mi sto preparando ad amare tantissimo Milano non vivendoci più appena sarà possibile.
Non sono più abbastanza giovane, né certamente abbastanza ricco, mi danno fastidio i locali di merda, i negozi tutti uguali, e soprattutto l’estetica dei mercanti ottusi che stanno ridisegnando la mia città. Tanto casa mia l’affitteranno in un secondo a una famiglia che spenderà troppi soldi per stare vicino alla fonte di quegli stessi soldi.
Però ti ho voluto tanto bene, Milano, e penso che sia sempre meglio lasciarci che non esserci mai incontrati.
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