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A Milano torna Live Wine: come cambia il vino naturale e come raccontarlo?

27 Febbraio 2018

Tra qualche giorno a Milano torna Live Wine, il Salone internazionale del vino artigianale, che dal 3 al 5 marzo raduna circa 150 produttori italiani ed esteri al Palazzo del Ghiaccio e fa sì che tutti possiamo assaggiare le loro bottiglie. Siamo alla quarta edizione, che quest’anno cade proprio sul weekend elettorale: ottima coincidenza per chi vuole bere (bene) per dimenticare.
Si parla di vino artigianale ma ci si riferisce al cosiddetto vino naturale, che è lontano dall’avere una definizione univoca e concorde, ma che possiamo in estrema sintesi tradurre come un vino ottenuto da un’agricoltura rispettosa del suolo (no chimica di sintesi) e da tecniche enologiche poco interventiste (no additivi enologici, eccetto poca solforosa). Questo il concetto di base, aperto poi a varie sfumature.

Per un bilancio di quello che Live Wine ha visto succedere in questi anni e per capire cosa promette l’edizione 2018, ho fatto due chiacchiere con Lorenzo De Grassi che organizza la fiera insieme a Christine Cogez-Marzani, e che ha il polso della situazione del vino naturale in Italia. Io e Lorenzo ci siamo già parlati tre anni fa, in occasione della prima edizione del Salone. E per questo inizio col chiedergli…

 

In 3 anni com’è cambiato lo scenario dei vini naturali/artigianali? Hai visto succedere qualcosa di significativo?
Il mondo dei vini naturali sta crescendo e viene apprezzato sempre di più, ma è anche cambiato qualcosa nel mondo dei vini convenzionali. La cosa buona che sta facendo il movimento dei vini naturali è che sta svegliando una consapevolezza anche in chi naturale non è e non vuole essere. Cioè c’è stato un cambiamento anche nei territori affezionati alle tecniche agricole invasive, ad esempio un graduale e ancora parziale abbandono del diserbo più aggressivo, con alcune aziende convenzionali che si stanno convertendo al biologico: nelle Langhe, a Montalcino… Il vino naturale ha capovolto un concetto di vino che prima era instaurato in esclusiva. Ha lanciato una specie di grido d’allarme sul fatto che il vino stava prendendo una piega sbagliata. E la risposta è arrivata anche dal mondo convenzionale, è una buona cosa. Poi la mia è una visione ottimistica e va presa anche come un augurio.

Live Wine. Palazzo Del Ghiaccio, Milano.

Chi sono i vignaioli di Live Wine 2018? Quali caratteristiche li accomunano, come li selezionate?
Abbiamo dei parametri precisi, che sono pubblicati anche sul nostro sito. Ai vignaioli, che devono seguire personalmente tutte le fasi di produzione e imbottigliamento, chiediamo cioè che il metodo in vigna sia come minimo di tipo biologico; che non venga usata chimica di sintesi in vigna; e in cantina non vengano usati additivi a parte i solfiti quando si ritiene necessario. Che vengano fatte fermentazioni spontanee o con l’aiuto di pied de cuve, e che quindi non ci sia uso di lieviti selezionati. Infine, che i solfiti nei loro vini non superino certi livelli: 50 mg/litro per i rossi, 70 per bianchi e rosati e 100 per dolci e passiti (circa un terzo dei valori consentiti per legge).

 

Durante la fiera ci saranno due degustazioni dedicate ad Austria e Spagna, cosa possiamo imparare dai vini austriaci e spagnoli che presentate?
Sono due nazioni che stanno cambiando moltissimo. L’Austria ha dei vini clamorosi, alcuni molto eleganti: dei rossi con una bella freschezza e profondità, dei bianchi con una mineralità pazzesca. E il livello è cresciuto tanto negli ultimi anni, è un fenomeno da osservare, per questo la degustazione si chiama “Il fenomeno Austria”.
La degustazione sulla Spagna invece si chiama “La rivoluzione spagnola” perché fino a poco tempo fa la Spagna era conosciuta per i suoi vini legnosi, piacioni. Invece adesso vanta un movimento di vignaioli che fa cose completamente diverse: ci sono i bianchi catalani, o dei Cava biodinamici che non invidiano nulla a certi Champagne (uno champagnista mi ammazzerebbe per questa frase), c’è il vitigno xarello che secondo me è interessantissimo. Insomma questa nuova onda sta facendo emergere territori finora considerati minori che invece esprimono cose bellissime. Che poi questo è in generale uno dei meriti che mi sento di poter riconoscere ai vini naturali: aver portato una maggiore diversità anche dal punto di vista dei territori, mentre per decenni si è prestato attenzione sempre alle stesse zone.

La crescita di interesse e di successo dei vini naturali porta con sé dei rischi. Uno è la possibile piega hipster. Ci penso ascoltando cosa dice chi il vino naturale lo guarda con sospetto. È possibile che vignaioli e pubblico (soprattutto pubblico) dei vini naturali finiscano per identificarsi in una nicchia autocompiaciuta e sviluppino una forma spocchia verso tutto il resto? E come si evita?
Sì, se vai per saloni incontri persone che potrebbero essere definite hipster, però mi sembra un fenomeno marginale. Oltre che non posso dire che l’hipster sia necessariamente negativo, io lo vedo come una persona che cerca di essere contemporanea. Se invece intendi il rischio che i vini naturali possano diventare di moda, direi che al di là di quanto se ne parla, rappresentano ancora una fetta minima del mercato. E che se essere di moda vuol dire influenzare l’atteggiamento di produttori e consumatori in positivo (maggior consapevolezza ambientale ed etica verso la terra e i prodotti) allora ben venga anche la moda. Però c’è ancora tanto da fare per arrivare a questo.

 

L’altro rischio è quello dei finti naturali. Andando per fiere di vignaioli-naturali-artigianali mi è capitato anche di incontrare vini fatti con tecniche agronomiche ed enologiche che non avevano niente a che fare con la filosofia non interventista che invece mi aspetterei. Credo sia un effetto collaterale dell’assenza di un disciplinare ufficiale e univoco. Secondo te c’è questo rischio di “infiltrati” e come lo scongiurate a Live Wine?
Dipende cosa si intende per “infiltrati”, perché una cosa che ho capito è che più ti immergi nelle mille variabili del vino più ti rendi conto che non c’è una verità incontestabile, ma tante versioni diverse dei diversi produttori e molti casi difficili da classificare. Ti faccio un esempio: mettiamo che c’è un produttore che fa vini naturalissimi in una parte della produzione e poi però ha anche una linea più convenzionale. Tecnicamente i suoi vini naturali sono perfetti per la mia fiera ma eticamente è giusto che io lo inviti? È complicato. Tutti ­­– compresi noi – facciamo del nostro meglio per fare una selezione onesta, poi può sempre capitare di fare degli errori. Diciamo che la cosa importante per me è proporre una certa idea di vino e restare fedele a quella, senza diventare però dei poliziotti del vino. E anzi cercando di preservare e valorizzare la grande diversità che c’è tra i produttori naturali, che fa convivere vini più estremi e vini più ordinati, almeno questa è l’ambizione di Live Wine.

Nelle parole di molti detrattori dei vini naturali ricorre spesso il tema dei difetti, cioè che i vini naturali a volte escano dai canoni di gusto prescritti dalle scuole di sommelier. Che poi è anche la diversità che ha conquistato molti altri, me compresa. Però i detrattori sostengono che questi “difetti” portino a un appiattimento del gusto su alcuni tratti ricorrenti. Dunque tutto il contrario: un rischio di omologazione. Come risponderesti? Esiste la possibilità che il vino naturale scivoli verso un suo canone di gusto?
Per me omologazione è quando non senti la differenza tra un vino del Trentino e uno della Sicilia perché sono fatti con gli stessi lieviti e ingredienti e cercano ogni anno di essere uguali all’anno precedente per rispondere a un certo “timbro” che l’enologo si è prefissato. Nel caso dei vini naturali direi che la forza è proprio nella diversità, poi è possibile trovare vini che abbiano dei tratti in comune, magari dovuti a simili approcci alla vinificazione (la macerazione sulle bucce nei bianchi, l’esclusione della solforosa, che possono in alcuni casi portare a note ossidative o acetiche) e se li trovi vabbè, può capitare. Si chiama omologazione? Non so. Certo è che in generale: più conosci una cosa, più sei capace di leggerci delle differenze, meno la conosci, più ti sfuggiranno le sfumature. Comunque di nuovo, per me quel che conta è difendere un concetto agricolo in primis, cioè la biodiversità, e con essa un vino il più possibile genuino, che valorizzi il luogo da cui viene e la persona che lo fa. Le diatribe sul gusto, la caccia al difetto, mi appassionano poco. Mi interessa il gusto individuale: ti piace? Lo bevi. Non ti piace? Non lo bere, va bene lo stesso.

 

A volte, per spiegare i vini naturali a chi non sa cosa sono, mi è utile fare il paragone con la cucina, che è qualcosa di cui tutti si sentono esperti. E dico è che un vino naturale è come un piatto in cui la cosa importante è la materia prima: dove e come è stata coltivata o allevata, e il cui gusto è lasciato il più possibile intatto, senza condimenti o aggiunte di altri sapori. Vado bene? Fa troppo sogliola al vapore? Come posso migliorare?
Secondo me il paragone migliore è quello con il pane. La differenza tra il vino convenzionale e quello naturale è simile a quella tra un pane fatto con lieviti industriali e farine raffinate e invece un pane fatto da grani selezionati, che fermenta a partire dalla pasta madre, ed è influenzato dal posto in cui viene fatto, dal clima, dall’acqua usata. Un pane che è il risultato irripetibile dell’impronta del territorio e della mano del panettiere.

 

Fb: diletta.sereni
Ig: chosevue

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