Economia civile

A Milano ci vuole più impresa sociale. Ma come?

4 Marzo 2020

Di tutto si può accusare l’imprenditoria sociale milanese ma non che abbia contribuito alla sovraesposizione della città. E questo nonostante la dimensione sociale sia sempre più al centro delle dinamiche di sviluppo metropolitane, con le sue opportunità e le sue ambivalenze. Qualche esempio? Le piattaforme digitali che con modalità diverse, e non solo attraverso i meccanismi capitalistici basati sull’estrazione di valore, fanno sharing economy. Gli hub d’innovazione tecnologica – incubatori, acceleratori, coworking – che alimentano ecosistemi d’imprenditoria innovativa, anche a finalità sociale, e relativi servizi a supporto. E ancora i progetti di rigenerazione urbana a trazione culturale e civica che si fanno carico di progetti d’area su scala dal micro al macro. Per non parlare dell’apporto di conoscenza da parte di centri universitari e think tank che sempre meno si limitano a registrare quel che succede e sempre più tendono a entrare nel merito di oggetti e metodi. Infine, ma era quasi scontato, va considerato il ruolo della filantropia che sempre più tende a saldarsi con quello della finanza nel nome dell’impatto sociale.

A fronte di queste evoluzioni sarebbe facile additare l’impresa sociale – in particolare quella in forma cooperativa impegnata soprattutto in alcuni campi del welfare come assistenza, educazione, inserimento lavorativo – di occupare una posizione di secondo piano. Di aver svolto cioè al massimo un ruolo pionieristico, ma di non aver saputo scalare il proprio social business e il proprio ruolo di policy maker, preferendo consolidare la posizione di vantaggio nella catena di fornitura dei servizi pubblici. Servizi peraltro intermediati non da una qualsiasi “stazione appaltante”, ma da un’istituzione consistente in termini di risorse e competenze come il Comune di Milano.

Dunque il destino dell’impresa sociale, peraltro non solo a Milano, è di concentrarsi sulla parte hard del welfare stando a guardare, con quell’atteggiamento di scetticismo tipico chi l’ha vista lunga, altri parvenu fare il topping alla torta dell’innovazione sociale?

Certo, se così fosse, sarebbe non tanto un problema di posizionamento, ma “semplicemente” uno spreco di risorse: progettuali, economiche, tecnologiche, lavorative e, non da ultimo, di radicamento e di coesione sociale in un contesto urbano dove a farla da padrone sono sempre più i flussi di una globalità alla ricerca di contesti interessanti dove atterrare.

Poter contare su un cluster di imprese sociali urbane dotate sia di capacità di esecuzione che di investimento diventa quindi cruciale. Già ma esiste un cluster? E se sì, come è fatto? Allo stato attuale sembra di assistere a una transizione importante proprio da questo punto di vista. Si evidenzia infatti la progressiva affermazione di imprese sociali e di gruppi non solo di dimensioni sempre maggiori ma con al loro interno una pluralità di offerta e di modelli di business. Insomma non “industrie del sociale” settate per produrre esclusivamente prestazioni specialistiche seriali e sterili rispetto ai contesti, ma, traslando un termine coniato nell’ambito di una ricerca realizzata dall’Università Cattolica, delle “quasi piattaforme”. Organizzazioni cioè che tentano di bilanciare processi produttivi propri operando all’interno di diversi mercati – pubblici e privati, analogici e digitali – e al tempo stesso abilitando azioni ulteriori rispetto ai nuovi player dell’innovazione sociale che, va ricordato, sono altre imprese e istituzioni come quelle ricordate in apertura, ma sono anche – e forse soprattutto – quel che ribolle nei quartieri e nelle periferie.

Per assecondare questo passaggio serve, forse, una nuova forma di raggruppamento rispetto alla quale sembra però necessario ridisegnare profondamente gli assetti e le funzioni di rete fin qui adottati. Un nuovo soggetto capace di innovare l’intermediazione e che quindi non è solo un centro di servizi perché ormai molte attività di supporto come certificazioni e accreditamenti sono gestite in casa e se serve possono essere acquistate nell’ecosistema. Ma non può essere neanche il tanto vituperato (ma, diciamocelo, molto utile) “progettificio” in un’epoca in cui le risorse che vengono dall’alto sono, soprattutto a Milano, in posizione sempre più “top” e quelle che vengono dal basso chiedono, anzi a volte reclamano, un coinvolgimento attivo che richiede competenze di codesign. E infine non è neanche (o non solo) un intermediario rispetto a risorse finanziarie che facciano da polmone alla gestione ordinaria, ma siano in grado invece di alimentare una capacità di investimento su azioni di sistema attraverso nuovi veicoli societari capaci di assorbire una più elevata intensità di capitale e di tecnologia generando cambiamenti all’altezza di sfide come l’implementazione della già ben disegnata food policy cittadina o l’abitare per flussi sempre più consistenti di abitanti temporanei. Un passaggio non solo di ingegneria organizzativa e finanziaria, ma anche generazionale, favorendo il ricambio interno e attraendo competenze da altri ambiti. Attori e temi quindi non mancano. Per cui, visto che l’impresa sociale a Milano c’è, forse è il tempo giusto per battere un nuovo colpo.

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