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A filo refe. Un percorso letterario per conoscere il carcere
In un’intervista degli anni ’80, la scrittrice e attrice Goliarda Sapienza, in seguito a un periodo di reclusione a Rebibbia per furto di gioielli, disse a Enzo Biagi: “Io ci volevo andare da molto tempo in carcere. A casa mia si diceva che il proprio paese si conosce conoscendo il carcere, l’ospedale e il manicomio. Ma il carcere per conoscerlo, bisogna andarci” (Qui il video completo).
Dalla vita di chi non lo conosce, il carcere appare invece lontanissimo. Lontanissimo e astratto. Si percepisce come un’entità altra, come se non riguardasse tutti i cittadini, come se non fossimo tutti “carcerabili” esattamente come siamo tutti “ospedabilizzabili”: entrambe eventualità tabù, la prima molto più della seconda.
A raccontarlo, il carcere, ci sono solo serie televisive come Orange is the new black e alcuni film americani; lo si immagina in qualche canzone di De André, lo si legge sui giornali sotto forma di numeri – gli anni da scontare – e raramente di rivolte, ogni tanto di morti come quella di Stefano Cucchi. Che aspetto abbia veramente, come funzioni la vita all’interno, di tutto ciò non si ha che una vaghissima idea. E, se Goliarda Sapienza aveva ragione, questo vuol dire non conoscere il proprio paese.
A partire da marzo e fin dopo l’estate, in Zona Due, a Milano, si susseguiranno iniziative e incontri dedicati al carcere in un percorso divulgativo e letterario volto a colmare almeno in parte questa distanza.
Il progetto si chiama A Filo Refe: si tratta di una tecnica tipografica che si utilizza per legare insieme le pagine di un libro, e vuole rimandare al “lavoro associativo e culturale di cui c’è bisogno per tenere insieme tante piccole realtà sparse e coordinarle insieme per avere un po’ più di voce nel dire che di carcere è necessario parlare e vogliamo farlo”, come spiega uno degli organizzatori, Francesco Sala (Libreria Anarres). Ma fa anche pensare a un lavoro di cucitura fra il mondo fuori e il mondo dentro.
Tutto comincia con il Bando per Il libro e la Lettura di Fondazione Cariplo del 2020: fra i vincitori c’è anche questo progetto incentrato sul carcere e la detenzione. A parlarsi saranno in particolare il territorio di Zona 2 di Milano e il Carcere di Bollate. Sono quindi coinvolte le cooperative Carte Bollate, ZeroGrafica e Camelot che lavorano dentro il carcere, le librerie di quartiere (Anarres, Potlach, Noi, Iman, Covo della Ladra), le case editrici Eleuthera e Agenzia X, l’associazione culturale Axis, piedipagina e quella degli Amici del Parco Trotter, la biblioteca di quartiere di Crescenzago e i soggetti istituzionali del Municipio 2.
Ci saranno incontri dal titolo “Cos’è la detenzione” nel corso dei quali si indagheranno tematiche come la rappresentazione mediatica del carcere; la questione psichiatrica e quella delle droghe; la deriva carcerocentrica del diritto penale; il carcere durante il Covid e molte altre.
Si proietteranno film come Cattività di Bruno Oliviero, Luca Mosso e Mimmo Sorrentino, Nella città l’inferno di Renato Castellani e Le Rose Blu di Emanuela Piovano.
Ci saranno anche reading nei cortili di via Padova, organizzati dalla casa editrice Eleuthera, e passeggiate letterarie nel territorio di municipio 2 con letture di brani e narrazioni sul carcere durante la resistenza o negli anni ’70 della Mala. Una passeggiata si svolgerà anche all’interno di Bollate insieme ai detenuti, mentre il gruppo di lettura della Biblioteca di Crescenzago e quello di Bollate intraprenderanno percorsi di lettura condivisi. (Qui il programma completo).
Uno dei primi eventi si è tenuto ieri: all’ex chiesetta del Parco Trotter è stato presentato il nuovo numero di Carte Bollate, il periodico di informazione dei detenuti e delle detenute di Bollate. Due detenuti raccontavano il loro rapporto con la lettura e la scrittura in generale e con l’esperienza di questa redazione, spiegando come la lettura diventi uno spazio personale in un luogo in cui per definizione c’è il tempo ma non manca lo spazio, e come si riveli strumento fondamentale per andare oltre l’orizzonte delle sbarre e così emanciparsi da se stessi e imparare a leggere il mondo alla giusta profondità; della scrittura sottolineavano la possibilità che offre di vivere quello che lì non si può vivere, di “creare mondi altri in cui vivere e abitare”. La redazione di Carte Bollate veniva invece raccontata come “un posto dove si progetta”, fondamentale perché “in carcere è difficile progettare ma chi non progetta muore. La redazione è un modo di allearsi per fare qualcosa insieme”. Così, in presenza del direttore del carcere si è parlato anche di come il “modello Bollate” sia rarissimo nonostante le norme prevedano un lavoro attivo per favorire la risocializzazione. La realtà dei fatti è che, se qualcosa va storto, si punisce prima il direttore che si è messo a rischio per rispettare questa norma, rispetto a quello che pur di non rischiare che qualcosa vada storto non la rispetta.
Già quella di ieri, insomma, un’occasione per reinserire il carcere in un orizzonte cittadino, come quartiere della città e non mondo a se stante.
Il percorso di A filo refe permetterà di interrogarsi su questa istituzione. Un carcere che separa è un carcere che non prende veramente in considerazione il reinserimento del detenuto, che non si interroga sui motivi per cui qualcuno in carcere ci finisce (il 75% dei detenuti hanno al massimo la terza media), è specchio di una società che giudica il detenuto per non riflettere su se stessa.
“Chi partecipa a questo progetto” scrive ancora Francesco Sala su Carte Bollate “è convinto invece che le condizioni in cui si esegue una condanna penale siano essenziali nel dibattito sociale e non solo per un senso di umanità (cosa che comunque non dovrebbe mai mancare), ma proprio per aumentare la sicurezza generale della società in cui viviamo. Non la sicurezza delle sbarre e dei cancelli che creano deserti relazionali ma la sicurezza vera e duratura che scaturisce da una più equa ripartizione delle risorse e delle possibilità all’interno del tessuto sociale.
Per farlo pensiamo che sia utile far uscire il carcere dalla coltre di silenzio e di marginalità in cui il dibattito pubblico lo ha relegato e parlare francamente dell’idea di giustizia che vogliamo costruire, tutti insieme”.
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