Milano

A Corvetto una basket academy di strada per favorire l’inclusione sociale

18 Luglio 2023

Il quartiere Corvetto a Milano ha la fama di essere una zona complicata, numerosi i problemi sociali come spaccio e consumo di droga, disoccupazione, conflitti e degrado nelle case popolari, case occupate, molte persone con problemi psichiatrici. Al Comune, che negli ultimi decenni ha effettuato investimenti nella rigenerazione urbana dedicati al rifacimento di case popolari, di strade e piazze, oltre ad aver creato luoghi di incontro e di aggregazione, si affianca l’idea di Vincenzo e Giovanni che hanno pensato di trasformare la passione per lo sport in uno strumento di aggregazione. Nasce così la “Corvetto Street Basket Academy”, una scuola di basket di strada itinerante, inclusiva, gratuita per ragazze e ragazzi dagli 8 ai 14 anni che sfrutta i tanti campi da basket all’aperto del quartiere e li trasforma in luoghi di coesione per un progetto sociale e sportivo di impatto. Ne parlo con Giovanni uno dei due fondatori.

Come nasce e cos’è la Corvetto Street Basket Academy?

Nasce 18 mesi fa, all’inizio della primavera 2022, quando il mio socio Vincenzo Belluomo mi ha proposto di ragionare su un progetto che riguardava i playground di Corvetto. L’idea è nata perché durante il Covid mentre girava in bici si è reso conto che ci sono tantissimi campetti pubblici scarsamente utilizzati. Tra marzo e aprile 2022 è stata pubblicata la call per la Scuola dei Quartieri di Milano, un progetto del Comune per finanziare progetti dal basso, proposti dalle persone che abitano nel quartiere. Noi siamo stati una delle 16 realtà selezionate. La Corvetto Street Basket Academy è una scuola di basket gratuita e inclusiva sui campi di Corvetto. Gratuita perché ci occupiamo di dare noi i materiali ai ragazzi come le uniformi, le magliette, i palloni e le attrezzature per gli esercizi. Inclusiva perché non diciamo di no a nessuno e il risultato si è visto sia con le persone originarie di altri paesi sia per la partecipazione di ragazzi provenienti da famiglie con varie fragilità, economiche, famiglie monogenitoriali o problemi legati a diverse forme di disabilità, soprattutto cognitive. La nostra è una scuola quindi non diamo il pallone ai ragazzi e gli diciamo “divertitevi”, un giorno li facciamo lavorare sul tiro, un giorno sul controllo della palla, sulla difesa, sul gioco di squadra, sul passaggio. Crediamo fortemente che il gioco del basket sia un ottimo strumento di crescita, perché ha una serie di caratteristiche fondamentali che privilegiano la squadra rispetto alla stella: tutti devono giocare, la stella non salva la partita, ognuno è coinvolto e sostanzialmente vince chi passa di più la palla. Sono tutte regole che in un contesto storico culturale in cui si cerca sempre di premiare e sottolineare l’importanza del singolo sono molto importanti, soprattutto quando metti in campo “giocatori” che non fanno parte della stessa comunità o dello stesso giro di amici. È anche interessante vedere le formule di collaborazione che si sviluppano e come si superino i blocchi di interazione. Ci sono alcune cose che ci hanno dato molta soddisfazione.

Immagino. Voi arrivate da questo sport?

Sì, io ho giocato tanto tempo, fino ai 18 anni. Vincenzo gioca ancora e allena anche un’altra squadra. Lui è sul campo e io dietro alla scrivania. Io scrivo i progetti per procurare le risorse, lui è quello che poi le trasforma in allenamenti sul campo. I progetti pagano non tanto in denaro, ma in attrezzature e formazione.

Quanti ragazzi e ragazze riuscite a raggiungere attualmente?

Durante il primo anno hanno giocato con noi un centinaio di bambini, di cui 40 sono iscritti e 25 è la media sul campo. In un giorno normale abbiamo 25 ragazzi in campo, che è poi il limite massimo che ci eravamo dati per gestirli. Una bella soddisfazione, non contavamo di raggiungere questo risultato in poco tempo. Ammetto che è stato molto importante il contatto con il territorio. A Corvetto ci sono tante realtà associative che lavorano molto bene e con alcune siamo partner consolidati, come la Cooperativa La Strada. Lavorando con loro siamo riusciti a contattare i ragazzi ed avere una rete di informazioni da acquisire.

Come li avete agganciati all’inizio? C’era diffidenza?

Abbiamo lavorato molto sui social e sul rapporto con le scuole. Uno dei motivi che mi ha spinto ad iniziare questo progetto ha origine da un confronto con il Dirigente Scolastico di una scuola di cui sono presidente dei genitori, dove è emerso che il Covid ha ucciso una serie di attività pomeridiane. Molte associazioni che lavoravano hanno perso i fondi per due anni e le realtà hanno chiuso. Oltre al lavoro con le scuole, siamo andati in campo. Abbiamo fatto 3 open day all’inizio di maggio durante i quali abbiamo raccolto le prime iscrizioni, poi abbiamo sfruttato il passaparola, Instagram, Facebook, le associazioni di quartiere e siamo riusciti a crescere. Il nostro obiettivo era intercettare i ragazzi che avremmo trovato per strada e così è stato. Di quei 40 iscritti 2/3 li abbiamo raccolti sul campo, 1/3 è arrivato con il passaparola e di quei 100 ragazzi e ragazze con cui abbiamo giocato 70/80 li abbiamo trovati quel giorno sul campo e li abbiamo convinti a seguirci.

Il vostro è soprattutto un progetto di inclusione sociale, quali sono gli obiettivi principali che vi siete prefissati, ma soprattutto quali sono i risultati più concreti che vi arrivano?

Non ci siamo fissati obiettivi al di là della questione numerica e quella è stata un’evoluzione successiva. Ci siamo resi conto che il nostro coinvolgimento doveva essere da educatori, non solo allenatori e che dovevamo lavorare anche su altre fragilità dei ragazzi che non riguardassero il palleggio o il tiro. Perciò quando abbiamo raggiunto la quota di 25 ragazzi, che partecipano quotidianamente alle attività, per noi è stato un successo. Però oltre ai numeri, i risultati del progetto per il quartiere iniziamo a vederli adesso.

Puoi farmi un esempio? C’è qualcuno che grazie alla vostra iniziativa ha superato una fase di difficoltà?

Ad esempio, domenica c’è stato un evento all’Arco della Pace organizzato da Gianpaolo Ricci, giocatore della Nazionale e dell’Olimpia di Milano. Abbiamo detto a tutti quelli dell’allenamento del sabato di unirsi all’evento e sono venuti una decina di ragazzi; tra di loro ce ne sono due che hanno delle forme di disabilità cognitive più o meno importanti e sono ragazzi che sicuramente fino all’anno scorso non avrebbero partecipato a queste attività con la stessa consapevolezza con cui hanno partecipato domenica. È stata una grandissima soddisfazione e un obiettivo raggiunto. Siamo riusciti a coinvolgere dei bambini che avrebbero passato la domenica a casa o a ciondolare al parchetto e invece sono venuti con i loro amici e altri coetanei sconosciuti a giocarsela alla pari su un campo da basket montato sotto l’Arco della Pace.

Che età hanno i ragazzi?

Ufficialmente offriamo i corsi dagli 8 ai 14 anni. Abbiamo fatto una stima guardando le date di nascita e mediamente hanno poco più di 10 anni. La fascia più numerosa è quella tra 9 e 11 anni.

Cosa significa per il quartiere un progetto come il vostro?

È una buona domanda perché in effetti quando abbiamo iniziato c’era tanto entusiasmo per quello che avremmo fatto, ma anche molta incertezza, perché non venivamo dal mondo associativo del quartiere. Andando avanti i rapporti con il territorio si sono decisamente consolidati, si sono resi conto che lavoravamo sul serio, tutte le settimane eravamo sui campi, col freddo e col caldo. Questo ci ha reso più visibili, sono aumentati i like su Facebook e le condivisioni dai cittadini del quartiere. È diventata oggi una situazione normale, non facciamo cose straordinarie, non andiamo a salvare i ragazzi distrutti dalla droga; andiamo sul campo e li facciamo giocare, è un’attività semplice per un quartiere. Corvetto è una zona che è sempre stata vista come il quartiere della droga, dei disperati, delle tensioni etniche e della gentrificazione, vedere bambini che giocano a basket con magliette e palloni invece che in modo raffazzonato diventa anche un moto di orgoglio e questo a noi piace. Se vuoi è una tematica anche legata alla cultura del playground, un po’ caciarona, grossolana, ma che difende il territorio in cui si trova. Per cui è un modo per Corvetto di promuovere un’attività positiva, che recentemente sta avendo anche un buon ritorno mediatico.

Come finanziate il progetto e con quali altre realtà collaborate?

Per lo più ci autofinanziamo attraverso bandi e finanziamenti. Per il futuro stiamo ragionando con il Comune e il Municipio per portare avanti strategie di crowdfunding civico e per cercare sponsorship anche piccole perché abbiamo costi limitati. Collaboriamo per lo più con attività associative. Quando abbiamo iniziato non potevamo andare subito sul campo quindi abbiamo sfruttato il fatto che ci fossero gli Europei a Milano e grazie a dei contatti siamo riusciti a parlare con Master Group Sport, che è la società di comunicazione che gestisce la Federazione Italiana di pallacanestro. Abbiamo presentato il nostro progetto alla Nazionale e li abbiamo convinti a darci ciò che avanzava per utilizzarlo sul campo. Grazie a questa collaborazione abbiamo conosciuto Giampaolo Ricci, che ora è nostro amico e sostenitore. Agli Europei abbiamo conosciuto anche l’Assessora allo sport, Martina Riva, e da lì abbiamo creato una rete di realtà con cui collaboriamo, focalizzate sullo sport e sul basket come attività positive per la rigenerazione della comunità. Il Comune e il Municipio sono stati veramente preziosi fin dall’inizio e sono stati sempre molto rapidi quando abbiamo avuto bisogno. Abbiamo una partnership con Decathlon Club che ci permette di avere l’attrezzatura a prezzi scontati.

Collaborate anche con i privati?

Per adesso no. Ci sono cittadini privati che ci sostengono, ma le sponsorship con aziende private possono essere positive per l’aspetto economico, ma anche un po’ rischiose, noi lavoriamo con bambini e bambine e siamo una struttura molto piccola, composta da 2 soci e qualche allenatore.

Come si coinvolge un ragazzo? Passa un ragazzo da solo, con un genitore e cosa fate?

Gli passi un pallone. Noi vogliamo avere le magliette perché vogliamo essere riconosciuti, non vogliamo essere scambiati per qualcuno che sta giocando e basta. Gli diciamo: “vuoi provare?” e gli dai la palla. Insistiamo molto con gli allenamenti quindi rendiamo più difficile sentirsi in imbarazzo perché non si sa fare una cosa. Bambini che non tornano almeno una seconda volta ne abbiamo avuti veramente pochi, quindi è un metodo che funziona.

Ma crescendo con gli allenamenti a qualcuno viene voglia di fare una partita?

Sì gli allenamenti finiscono sempre con la partita però non è la parte più bella. Ci sono altri giochi che li coinvolgono maggiormente. Bisogna tenere conto che comunque sono bambini quindi durante la partita può succedere che quello che gioca meglio vuole partecipare di più rispetto a chi è meno bravo. Ci sono bambini e bambine molto bravi che giocano con noi perché non possono permettersi di giocare in una squadra tradizionale. Per questo noi abbiamo sempre fatto tutto gratuitamente.

Che differenza c’è tra i bambini iscritti e chi no?

Gli iscritti sono i bambini che ci hanno dato un minimo di continuità. L’iscrizione significa essere assicurati e per noi è importante. Dei 100 bambini che vengono circa il 50% sono iscritti. L’iscrizione è gratuita ovviamente.

 

 

 

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