Londra

La struggente nostalgia per ciò che non è stato

19 Aprile 2021

Shane MacGowan ha passato gran parte della sua vita ubriaco. Già bruttino di suo, l’alcool, la cocaina e le sigarette lo hanno reso mostruoso, col volto deforme ed una manciata di buchi neri tra denti gialli e marcescenti. Nel 2001 la cantautrice Sinéad O’Connor lo denunciò alla Polizia, sperando che, in caso di arresto, lo avrebbero obbligato a smettere. Solo nel 2016, dopo che, in ospedale, era stato a lungo tra la vita e la morte, ha smesso. Aveva 59 anni ed una donna che lo ama da sempre, la giornalista Victoria Mary Clarke. Da quelle notti di pronto soccorso i due si sono chiusi in casa, lui esce solo per suonare. Con lei accanto. Ed a casa non ricevono nessuno.

Scusatemi se provo affetto per due persone che non conosco, ma a volte, rarissime volte, la vita restituisce ciò che ruba, e questo mi da fiducia ed ispira gratitudine. Shane è entrato nell’alcoolismo a quattro o cinque anni. I genitori lo portavano al pub, e lui non si addormentava, e quindi gli facevano bere birra calda, a volte tagliata con qualcosa d’altro. Verso gli undici anni aveva iniziato a cantare ed a bere negli stessi pub in cui i suoi genitori si erano guadagnati, col sudore della fronte, due cirrosi epatiche mortifere. Victoria è di 9 anni più giovane, ed è stata abbandonata per strada dai genitori, cui dava fastidio, perché la mamma aveva 16 anni – sicché è cresciuta in un orfanotrofio e, a 16 anni, ha incontrato Shane in un bar ed è rimasta con lui. All’inizio come sorellina, poi come amante, ed infine come “misura dei suoi sogni” – la persona di tutta una vita, non importa quanto sbalestrata.

The Pogues nel 1986, dopo la pubblicazione di “A Rainy Night in Soho”

Nel 1994, per caso fuori da un bar di Mayfair, ho conosciuto Jamie Clarke, che era da anni il tecnico del suono dei Pogues e che, nel 1996, parteciperà come chitarrista all’ultimo album della band, “Pogue Mahone”, scritto e registrato dopo aver cacciato Shane MacGowan. Jamie mi raccontò, in una notte durata fino a mezzogiorno del giorno dopo, quando cademmo svenuti dalla stanchezza nella mia stanza d’albergo londinese, che molti dei testi di Shane venivano scritti in una condizione di delirio, ai confini dell’incoscienza – e Shane lo faceva di proposito perché, quando era in quella sorta di limbo, il suo genio metteva insieme frasi e concetti presi da ogni dove per costruire una storia, una sensazione, un’emozione, che poi avevano un valore universale – e poi raccontava di non sapere nemmeno lui da dove venisse quel testo.

Facevano eccezione i testi a favore dell’IRA, che erano uno dei motivi per cui la band litigava peggio che a causa dell’alcool – ma questa è tutta un’altra storia. Con Jamie parlammo di una band che amo, gli Horslips, e che nessuno più conosce. Parlammo di Londra all’inizio degli anni 80, quando tutti già la odiavamo, e della Dublino di quel decennio, povera, disperata, grigia ed affamata, che invece amavamo con tutto il cuore. E parlando d’amore arrivai a quelle che sono tra le più belle parole mai scritte da un poeta – quelle di Shane su una notte di pioggia nel quartiere di Soho, che racconta di un amore durato mille anni e finito a causa dei suoi sbagli: “Non canto per un futuro, non sto sognando il passato; non voglio parlare delle prime volte e non penso mai all’ultima; Ora la canzone è quasi finita e c’è la possibilità che non scopriremo mai cosa significhi; Ma dopo tanti anni c’è ancora una luce che ancora mi guida: perché sei tu, per sempre, la misura dei miei sogni – la misura di tutti i miei sogni”.

The Pogues con Jamie Clarke (secondo da sinistra) dopo la pubblicazione di “Pogue Mahone”

Piangevamo commossi nella putrida e gelida e piovosa mattina londinese, Jamie con una bottiglietta in mano, io con una tazza di tea. E disse, d’improvviso: “Non è vero che questa canzone non si sappia da dove viene. È la canzone di Vicki. Shane era sempre al limite, spesso oltre. E lei c’era sempre. Non capivamo come fosse possibile. Nemmeno facevano sesso, spesso stavano abbracciati in silenzio per intere giornate, affondati l’uno nel cuore dell’altra. Due bambini”. E la canzone descrive in modo incomparabile questa nostalgia per qualcosa che non è mai accaduto, che, secondo me, è la forza primordiale che genera i capolavori più grandi dell’avventura dell’umanità.

Fabrizio De André cantava, con una sua tipica spocchia, che “c’è amore un po’ per tutti, e tutti hanno un amore sulla cattiva strada”. Adoro il piccolo borghese genovese, poeta compito e figlio di un’epoca diversa dalla mia, più vicina alle spaghettate della famiglia Tognazzi a Torvajanica che alla disperazione dei ragazzi dello Zoo di Berlino degli anni 80. Ma Shane MacGowan e Victoria sono eroi di una vita durante il diluvio, quel lungo periodo di buio che credevamo finisse insieme alla Guerra Fredda, ed invece…

Shane e Victoria nel 1982, poche settimane dopo il loro primo incontro

C’è pochissimo amore, nella vita. Molti non lo incontrano mai e sono costretti a prendere farmacologicamente qualcosa che dovrebbe assomigliarvi. A me basta questa canzone incredibile. L’unica per cui Shane litigò fino a prendere a spintoni Elvis Costello, che ne ha curato la produzione, perché non voleva che toccasse in alcun modo la sua versione demo. Elvis ci voleva archi e fiati classici. Jamie rideva e raccontava Shane urlante: “Ma che cazzo c’entrano le oboe con l’amore? Ma dico: oboe. Si è mai sentita una stronzata simile? Ma quanto devi odiarmi, piccolo uomo pallido d’oltre Oceano, per farmi questo?” Naturalmente, a me piace così. Senza oboe.

 

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