Genova

Marino & co. I nostri punching ball

23 Novembre 2014

Ignazio Marino potrà non essere agli occhi di alcuni il chirurgo più allegro del mondo, né il sindaco più simpatico. Ora che si sono un po’ intiepidite le acque, però, conviene collocare quel che gli sta accadendo in un contesto più ampio, e ragionarci su.
Perché lo sguardo attonito con cui si aggirava in mezzo alla folla inferocita e isterica, folla che lo spingeva e lo tirava come un Barabba qualunque mentre le telecamere riprendevano la scena, era troppo simile allo sguardo di Marco Doria qualche tempo fa.

E anche quest’ultimo potrà non essere agli occhi di alcuni il professore più saggio, né il sindaco più competente, ma quando scendeva da Palazzo attraversando le vie di Genova alluvionate e si aggirava tra i concittadini che inveivano nei suoi confronti a tutta gola, il dubbio che fosse un capro espiatorio alla gogna un po’ lo suscitava.

Poi, certo, se l’orizzonte è quello della politica attuale, ossia da un tweet all’altro e ritorno, e il terreno di analisi è la politica del domattina, allora è tutto inutile: dagli all’untore.
Ma il punto è un altro, ed è evidente a chi non si appassioni solamente dello strillare al derby da una curva all’altra; o, peggio, del bersagliare pretestuosamente un avversario per affossarne l’operato e sostituirlo a breve.
Il punto è che oggi questo paese, molto più di sempre, è ingovernabile; ho scritto qualche settimane fa su queste colonne, e lo ribadisco, che questo è un “paese grippato e nessuno lo può guidare”.

L’esperienza delle pubbliche amministrazioni è in proposito un utile punto di osservazione. Avvocati, professori, chirurghi erano ceto dirigente amministrativo anche in passato, simpatia e antipatia non sono criteri di valutazione della politica, abbiamo avuto anche amministratori più inesperti, o, addirittura, insipienti, maldestri, ladri.
Il punto vero è che oggi le istituzioni sono bloccate, non hanno possibilità di liberarsi e paralizzano tutto, a cascata, perché anche se non orientano le nostre comunità hanno nei loro confronti un insuperabile potere di immobilizzarla.

Tu accumuli pesi su una superficie, per mesi, magari per anni, e poi all’improvviso, non si sa bene perché né come, quella superficie cede e crolla, in un dato momento, in un momento preciso. Ecco, questo è il momento in cui si accumulano tutti i nodi, e vengono al pettine.
Un sindaco, ancora più di altre figure istituzionali, è lì dove questi processi avvengono, sulla frontiera della sfiga, e può fare poco o nulla per impedirlo. Perché, guardiamoci negli occhi, al di là di simpatie e antipatie, puoi davvero dare la colpa a Marino del disastro delle periferie coltivato assiduamente nel tempo, di architetti che costruirono un chilometro di casa popolare, di centri di accoglienza affollati da ministri degli interni, prefetti e questori, di fenomeni migratori che accelerano, eccetera eccetera? Puoi davvero dare la colpa a Doria di decenni di abusi edilizi, di condoni, di trascuratezze amministrative, di incurie civiche, di livelli di piovosità indocinesi, eccetera eccetera?

Ci si potrebbe chiedere, tuttavia, se essi da quando sono in ruolo avrebbero potuto risolvere i problemi che hanno trovato. E la risposta, purtroppo, è no.
Il sondaggio che il Pd romano (sic!) ha commissionato contro il proprio sindaco, evidenzia che pressoché tutti i cittadini si lagnano della gestione di trasporti, manutenzione e nettezza urbana; queste non sono partite che gestisca in prima persona la fantasia strategica di un sindaco, lo potrebbe fare chiunque, con le risorse necessarie. E qui sta il punto: senza risorse le città non sono amministrabili; e tanto meno lo sono le metropoli, le prime a cadere.
Quando ci diciamo che le città sono strette nelle morse dei patti di stabilità, del crollo delle risorse fino all’assenza totale, intendiamo questo. Intendiamo che senza soldi non affronti i problemi e senza tanti soldi non affronti i grossi problemi.

Inoltre, andrebbe approfondito meglio, persino sul piano socioantropologico, il fatto che negli ultimi anni, diciamo dal governo Monti in poi, tra cariche elettive e burocrazie del nostro paese si è aperto un solco sempre più ampio, lì sì il vero baratro.
Queste ultime hanno alzato il ponte levatoio, sono barricate dentro, non esiste un solo sindaco, assessore, ministro, sottosegretario (figuriamoci) che possa sinceramente affermare di controllare gli uffici sottoposti.

Le tecnostrutture pubbliche italiane sono asserragliate a difesa di se stesse e del proprio frazionatissimo potere di controllo su risorse e processi; nei loro confronti ogni eletto, quando va bene, esercita una moral suasion, quando va male non tocca palla.
E dato il discredito della politica, intendiamoci sovente meritato, le burocrazie sono per somiglianza portate ad allearsi tra loro contro di essa; il paese è nelle mani di corte dei conti e tribunali amministrativi, e al di sotto segreterie generali e dirigenti pubblici un po’ per auto conservarsi un po’ per non avere casini hanno chiuso la porta a tre mandate, e fermano tutto.

Il caso di Genova è emblematico: non c’era un ufficio che non avesse scritto la lettera che gli serviva per passare il cerino acceso della responsabilità all’ufficio dopo, e dopo, e dopo ancora, fino alla terra di nessuno della irresponsabilità burocratica: un gioco di prestigio tutto italiano nel quale siamo campioni del mondo.
Sembrerà cinico, ma è una mera constatazione: senza soldi e senza leve non governi, e infatti, qui nessuno governa un tubo. Quando va bene un sindaco o un assessore, possono gestire l’esistente, come dire, palleggiare per non far mai cadere a terra il pallone, mediare interessi, accompagnare processi, impiegare il proprio potere di convocazione per assecondare dinamiche, coordinare; “facilitare”, ecco, va di moda facilitare. Che è un altro modo per dire: aspettare che passi. Ed è già molto, moltissimo. Perché poi piove, si alza una piena, e il re è nudo.

Intendiamoci, togliere Marino e mettere Churchill in questa situazione sarebbe uguale e identico, non c’è santo che tenga. Tra l’altro, a queste cariche, che non hanno potere effettivo in tali condizioni, non è rimasta nemmeno la gloria; chiamiamolo status: ogni cittadino si sente libero di svillaneggiare a tutta voce il proprio sindaco. Ed in fondo è giusto così; se la mia casa si allaga, la mia vita è offesa, non ho lavoro, non posso nemmeno sfogarmi strillando? Appunto: si può dire che un amministratore pubblico oggi sia pagato dalla comunità per l’effetto terapeutico che provoca svillaneggiarlo pubblicamente.

Lo stato agonico in cui si trovano le principali città non è una questione politica, non solamente, non primariamente. È un fatto strutturale, perché l’Italia è in una crisi organizzativa.

Ragioneremo semmai sulle modalità per risolverla. Ma c’è un punto di partenza: risorse, servono risorse. Poi la politica potrà spenderle nel modo giusto o sbagliato, e si discuterà fino alla raucedine a seconda dei punti di vista.

Al momento, il primo atto di responsabilità che possa fare ogni pubblico amministratore entrato in ruolo è non simulare di avere del potere che non ha, è rendere trasparente la situazione.
Situazione che va cambiata, perché il resto è mero far finta e assecondare il declino.

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