Genova
La storia di un operaio ucciso dalle BR nel 1979 è importante
Sull’opera di Sergio Luzzatto vi sono opinioni contrastanti: in sostanza, la gran parte degli storici gli rimprovera di avere abbandonato da tempo l’ortodossia metodologica accademica, e al contempo di farsi scudo delle sue affiliazioni e del suo curriculum per dare sostanza “scientifica” (l’aggettivo più abusato di questo triste tempo) a opere ibride di narrativa storica alla Javier Cercas, stante una maestria narrativa che è riconosciuta e che ne fa in ogni caso uno scrittore sopraffino. Qui, più che fare riferimento a metodi o intenzioni, vorrei soffermarmi su due punti: 1. i testi di Luzzatto sono testi che pongono problemi: non si tratta, nonostante il successo di pubblico, di divulgazione, siamo da un’altra parte 2. il fascino di Luzzatto per le biografie, o dettagli di biografie, e la capacità di porle in contesto anche con prassi, queste sì, eretiche: il dare spazio alle ipotesi e ai condizionali, l’uso della prima persona, un rifiuto sostanziale della neutralità delle prospettive, il non avere paura – anzi, l’avere il gusto – dell’interpretazione spericolata. Questo vale una volta di più per l’ultimo libro di Luzzatto “Giù in mezzo agli uomini: vita e morte di Guido Rossa”, uscito da poco per Einaudi.
Dico subito che il testo ha, di suo, vari meriti. Il primo è quello del rinunciare all’impostazione – binaria, religiosa, cristologica – della vita del martire caduto sotto il fuoco del carnefice, la capacità di mettere in evidenza i gradi di partecipazione alle vicende degli operai di quegli anni, le tante minuscole zone grigie del vivere collettivo dell’Italia degli anni ‘70. Il secondo è quello – un passaggio che mi ha colpito moltissimo – della capacità di connotare le reti di relazione che portano un operaio (pur di livello, a suo modo) alle soglie dei cenacoli dell’intellighenzia. Il terzo, quello forse più importante e che percorre molto intensamente gli ultimi capitoli, è quello di connotare la storia di Guido Rossa come la parabola possibile dell’idealtipo di operaio che la sinistra italiana aspirava a costruire: forte e fedele alla linea come come un fabbro del realismo socialista, ma anche altro dalla sua rappresentazione professionale: alpino, scontroso, curioso, creativo, capace di stare bene nell’esercito ma profondamente individuo, responsabile come chi ha coscienza di classe ma coraggioso come chi deve rispondere, in ultimo, solo a sé stesso.
È proprio su questo punto che, forse, retrospettivamente, non seguo Luzzatto fino in fondo. Nella prospettiva dell’autore il funerale di Rossa – funerale cui Luzzatto, allora studente del Liceo Classico D’Oria a Genova, avrebbe voluto partecipare in una piovosa mattina della fine di gennaio del 1979 – è anche il funerale delle BR. Può essere, anzi è. Però, anche quell’idea di lavoratore che si costruisce certo grazie al lavoro, certo grazie all’adesione alla collettività sindacale ma anche, e forse soprattutto, alla capacità di non rinnegare sé stesso – fino all’ultimo, nella ricostruzione di Luzzatto – non è sopravvissuta a quella stagione. Decenni di denigrazione, quando non di scherno, delle istanze del lavoro, la precarietà strutturale, la scomparsa tanto del padronato familista quanto delle grandi partecipazioni statali rendono Guido Rossa un qualcosa che appartiene a un altro contesto, ad altri testi, a un altro tempo.
Resta che a discutere, anche pubblicamente, di quella stagione bisogna ritornare con una certa prepotenza, e il fiorire di pubblicazioni, accademiche e meno, che hanno come spazio di scena lo iato tra Piazza Fontana e la Stazione Centrale è del tutto benvenuto. I tempi sono maturi, del resto, perché si riconoscano quegli anni come fondativi della nostra peculiare relazione con quella cosa complicatissima e pachidermica che chiamiamo Stato: dopo quegli anni pieni di sangue quanto di piombo, non ci sono più state dialettiche serie: solo dialettiche farlocche, e reciproci sospetti.
Concludo con una bizzarria personale: lo stesso giorno in cui acquisto il libro di Luzzatto in una libreria di Rimini da cui mi rifornisco nei rientri in Italia sotto le feste, trovo del tutto per caso una copia usata, prezzata in lire, della Chiave a stella di Levi, devo riprendere in mano il Levi “non Shoah”, mi dico. Ecco: con la Chiave a stella, che è un testo di quegli anni anzi di quell’anno, la storia di Guido Rossa ha più di qualcosa a che fare.
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