Genova

La ricostruzione del ponte Morandi è la ricostruzione dell’Italia

11 Ottobre 2018

di Sara Bonati e Giuseppe Forino*

Dopo il crollo del ponte Morandi a Genova lo scorso 14 agosto è sorta una discussione sulla sua ricostruzione, concentrata sulla necessità di ripristinare il viadotto rapidamente per consentire alla città di usufruire nuovamente della sua arteria stradale strategica. Tale necessità, fortemente supportata dal governatore della Regione Liguria Giovanni Toti, ha dato il via a un tam tam mediatico sulle tempistiche della ricostruzione basato su presupposti unicamente “fisici” o ingegneristici.

Ricostruire dopo un disastro propone l’annoso dilemma della ricerca di equilibrio tra il necessario pragmatismo di un intervento rapido e un’altrettanto necessaria riflessione su come intervenire, per chi, e a quale scopo. Il raggiungimento di tale equilibrio presuppone un’analisi approfondita e contestuale (quindi dispendiosa di tempo) della complessità sociale e funzionale dell’area colpita. Analisi che spesso non ha modo di esistere né politicamente né in seno al dibattito pubblico, viste le pressioni politiche e mediatiche che la ricostruzione trascina con sé.

Nel caso di Genova, pochi giorni dopo l’evento la rinomata archistar Renzo Piano ha regalato alla città il suo progetto di ricostruzione. Azione meritoria e benvenuta da politica, media e cittadinanza. L’accettazione pressoché istantanea di questo progetto, però, non ha lasciato spazio a un’analisi più approfondita delle dinamiche urbane di Genova, che per decenni hanno creato e perpetrato persistenti disuguaglianze sociali ed economiche e problematiche ambientali. Così facendo, l’intervento di Piano ha smorzato alla nascita qualunque possibilità di discutere la complessità urbana di Genova e non ha dato risposta alla domanda: per quale Genova ricostruire il ponte? L’unica discussione politicamente possibile è stata infatti appannaggio di chi si è offerto di progettare (Renzo Piano, appunto), di chi ricostruisce materialmente (o chi è stato proposto come tale, cioè Fincantieri, salvo poi accorgersi di non avere le carte in regola per farlo), e di chi ha la responsabilità politica delle infrastrutture nazionali (il Ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti, Danilo Toninelli). Ferma restando la necessità di ripristinare un servizio essenziale per i genovesi, ora costretti a disagi quotidiani nella mobilità, restano però ancora aperti e poco dibattuti gli obiettivi strategici del ponte.

A questa domanda ha provato a rispondere Toninelli, inanellando tuttavia una serie di gaffe condite da dichiarazioni bizzarre. Il ministro ha infatti dichiarato che: “l’obiettivo non è solo quello di rifare bene e velocemente il ponte Morandi, ma renderlo un luogo vivibile, luogo d’incontro in cui le persone si ritrovano, in cui le persone possono vivere, possono giocare, possono mangiare”. Una proposta di ponte, questa, che abbraccia l’idea di un’infrastruttura multifunzionale che vada incontro alle esigenze del cittadino -fruitore e consumatore- e delle merci. Una proposta ironicamente definita “visionaria” da Francesco Chiodelli, che evidenzia l’assurdità del paragone proposto da Toninelli tra il ponte Morandi e il ponte Galata di Istanbul e lo scetticismo nei confronti del progetto dell’architetto Stefano Giavazzi, privo di esperienza nella costruzione di viadotti, ma comunque sostenuto dal ministro.

Non si può non concordare sulle critiche rivolte alla proposta di Toninelli, ma è necessario andare oltre l’ironia per tirare le fila del dibattito in corso anche in considerazione del futuro della città. Quanto dichiarato dal ministro banalizza il senso dell’infrastruttura in quanto risente della mancanza di uno sguardo d’insieme critico e approfondito su Genova. Questa mancanza, tuttavia, non è rintracciabile solo nella proposta astratta e malamente abbozzata del ministro ma, cosa più grave, anche in chi si sta facendo realmente carico della riprogettazione del ponte. Non si tratta infatti solo di ricostruire, ma di farlo in funzione di un contesto dinamico, di una città in continuo cambiamento nella sua struttura sociale ed economica. Genova sta vivendo da anni un processo di scollamento tra sviluppo economico -sempre più nodo nevralgico della logistica europea e della rete infrastrutturale del Mediterraneo- e componente sociale, ormai estranea all’attività economica portuale e costretta all’abbandono del territorio per mancanza di opportunità lavorative e di vita. Specchio di tale scollamento sono, per esempio, una tendenza negativa degli occupati (unica regione nel Nord-Ovest), il perdurare della crisi del commercio e della piccola imprenditoria, e un progressivo invecchiamento della popolazione.

Se da un lato la scelta del progetto deve avvenire su basi tecniche proposte e selezionate da professionisti riconosciuti, dall’altro il dibattito si è appiattito su soluzioni di natura esclusivamente tecnica offerte da un nome di grido come quello di Renzo Piano. Da diversi anni, infatti, le archistar tendono a essere sempre più protagoniste negli scenari post-disastro tramite “donazioni” di progetti per il bene delle aree colpite. Senza mettere in discussione il valore e la qualità dei progetti o dei proponenti, è però necessario sottolineare come, in virtù della gratuità e del prestigio, questi progetti smorzino riflessioni condivise sulle traiettorie future dei luoghi colpiti e mettano a tacere le voci di chi ha pagato la tragedia sulla propria pelle.

L’architetto Richard Rogers, dopo le alluvioni delle Cinque Terre nel 2011, propose e realizzò la ricostruzione del fronte-mare a Vernazza, sostenuto anche da Renzo Piano. Il progetto, supportato in particolare da donazioni private, ha certamente aggiunto notorietà al paese ma non è stato in grado di guardare al territorio in prospettiva sufficientemente integrata. A Vernazza, per esempio, il porto rappresenta solo l’area terminale nella quale si è consumato  il disastro del 2012. Problema annoso per il dissesto idrogeologico nell’intero territorio ligure resta infatti l’abbandono delle aree montane e gli eccessivi investimenti lungo la costa.

L’intervento di Rogers, insomma, guarda a quelle aree prevalentemente in termini di fruizione turistica, mettendo invece da parte riflessioni necessarie sull’abitare e sulle relazioni uomo/ambiente e perpetrando una visione del territorio ligure incentrata sul mare e sul turismo costiero. Lo stesso Renzo Piano è intervenuto all’Aquila con la costruzione di un nuovo Auditorium e ha proposto un progetto per Amatrice. A Genova, dopo il crollo della torre di controllo nel 2013, ha invece lanciato l’idea del Blueprint per il recupero dell’area portuale. Queste visioni “importate”, a nostro avviso, soffrono talvolta di un’incapacità di osservare le aree colpite come luoghi la cui complessità spaziale, sociale e relazionale, stratificata nel corso dei secoli e tuttora dinamica, necessita piuttosto di sguardi trasversali e lungimiranti.

L’area in cui è situato il ponte, la Valpolcevera, ha inoltre subito profondi cambiamenti negli ultimi decenni: aree agricole sono divenute dapprima aree industriali, poi luoghi della logistica, infine infrastrutture viarie. Non a caso, in Valpolcevera si trovano due cantieri attivi o in fase di avviamento per infrastrutture considerate strategiche per la viabilità, ossia la Gronda e il Terzo Valico. A questo si aggiungono questioni ambientali urgenti: preoccupazione costante desta la presenza dell’oleodotto di Iplom in zona Borzoli-Fegino, responsabile dello sversamento di petrolio nel torrente Fegino ad aprile 2016, e della discarica di Scarpino a monte della Valpolcevera, bloccata da quattro anni a causa di perdite da percolato. Oltre la Valpolcevera troviamo una città in profonda trasformazione, con interventi strutturali importanti in particolare lungo tutta la Val Bisagno per fronteggiare il rischio di alluvioni. Senza contare, ovviamente, il disagio delle persone che con il crollo del ponte si sono trovate senza casa e che vivono mesi di angoscia e incertezze.

Dunque, tornando alla domanda iniziale: per quale Genova si sta ricostruendo? Cosa apportano questi continui interventi alla città, se privi di uno sguardo d’insieme proteso al futuro? Pur in una tragedia come questa, il dibattito sulla ricostruzione avrebbe potuto rappresentare l’opportunità per una riflessione condivisa, critica e attenta della Genova di oggi. Invece, in quanto discusso finora mancano questioni imprescindibili non solo per Genova, ma più in generale per lo stato delle nostre città.

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Sara Bonati è assegnista di ricerca presso il laboratorio di geografia sociale dell’Università degli Studi di Firenze e ricercatore associato per la Universidade da Madeira (centro studi locali e regionali). Ha un dottorato in geografia umana e fisica e si occupa da diversi anni di riduzione del rischio di disastri, vulnerabilità sociale e resilienza delle popolazioni esposte al rischio di alluvioni, e di sostenibilità urbana. Ha svolto attività di ricerca in Italia, soprattutto in Liguria (Genova e Cinque Terre), e all’estero (tra le altre Portogallo- Madeira).

Giuseppe Forino è un ricercatore che si occupa di gestione di rischi e disastri e di cambiamento climatico. Ha un dottorato in geografia economica e sta ultimando un dottorato in disaster management alla University of Newcastle (Australia). Ha esperienze di ricerca in Italia (Abruzzo, Veneto, Puglia) e in Australia e pubblica regolarmente su riviste scientifiche nazionali e internazionali. E’ editor di Sismografie, focus su rischi e disastri del blog di scienze umane Lavoro Culturale.

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