Genova
Genova, per me
A Genova avevo 24 anni, ero arrivata in treno da Como con l’amico Matteo. Mi accompagnò in stazione mio padre nonostante fosse molto preoccupato perché quello era il giorno del corteo dopo la morte di Carlo Giuliani. Nei mesi precedenti avevo partecipato a diverse riunioni del movimento ‘Rete Lilliput’, studiavamo e discutevamo il concetto di sostenibilità e gli inganni degli organismi internazionali che avrebbero dovuto rendere migliore il mondo, ma scavavano baratri. Distribuivamo volantini davanti alle banche, vendevamo i prodotti del commercio equo, cercavamo un sistema ‘orizzontale’ per prendere delle decisioni. Lo ricordo come il tempo più puro, e senz’altro ingenuo, della mia vita: eravamo davvero convinti che si potesse costruire un ‘nuovo mondo possibile’ e nessuno di noi si richiamava a partiti e vecchie ideologie. C’era un sistema economico e sociale che ci appariva clamorosamente sbagliato e adesso infatti sta franando, ma l’unico rumore che fa mentre cade è quello del clic ‘non mi piace’ su Facebook. Invece quello di allora era un rumore nuovo di piazza, diverso da quello che avevano conosciuto i nostri genitori nelle loro piazze.
Ricordo il momento esatto di un pomeriggio azzurro e luminoso. Avanzavamo a mani alzate in corteo, il mio gruppo indossava una maglietta bianca con un Gulliver blu circondato da lillipuziani quando i poliziotti ci gettarono addosso dei fumogeni, senza nessuna ragione. Ricordo il buio, le lacrime, e l’altra cosa che ricordo fu quando chiesi a un poliziotto di chiamare un’ambulanza perché c’erano delle persone a terra che stavano male e lui mi rispose ‘Ve la siete cercata…’. Non ricordo invece nulla del viaggio del ritorno in treno. Ricordo invece il mattino dopo quando dissi ai miei genitori che quello che avevo visto a Genova non poteva essere successo in un Paese democratico, e il loro sguardo stupefatto. Non mi credevano, e allora non si poteva credere. Poi ricordo che quel movimento è finito, come finisce il giorno, in un modo ineluttabile, dal giorno alla notte, senza passare dal tramonto. Quello che non perdono ai responsabili del macello di via Diaz è che trasformarono un movimento che era un insieme di teste e di cuori, ciascuna con una propria identità, in un capitolo di storia ‘nera’ che, come tale, sarà sempre una sintesi ingiusta di quello che accadde in quei giorni e soprattutto nei mesi prima, di come ciascuno di noi percepì la propria perdita dell’innocenza e di come prima percepiva la propria innocenza. Eravamo diversi tra noi, oggi la parola ‘tortura’ ci rende ancora di più tutti uguali distruggendo per sempre la gioia multiforme di quel movimento anche se questa sera, finalmente, posso prendere quel treno da Genova e tornare a casa.
Manuela D’Alessandro
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