Genova
Genova, disuguaglianze al tempo del coronavirus
Intervista a Stefano Gaggero, Genova Che Osa
Si intitola ‘Disuguaglianze al tempo del coronavirus’ il dossier pubblicato sul sito di Genova Che Osa, l’associazione non-profit, social-culturale, progressista, di sinistra (così si definiscono loro) che nel capoluogo ligure dal 2017 cerca di coniugare intervento politico e ricerca sociale, un filone con alle spalle una lunga tradizione che sembrava essersi persa nel tempo. Il dossier analizza gli effetti delle misure di quarantena e distanziamento sociale introdotte a marzo calandole nella concreta realtà di una società sempre più diseguale, una condizione generale che a Genova però assume i particolari caratteri indotti dall’impatto della deindustrializzazione su una città che fino agli anni ’80 è stata uno dei vertici del ‘triangolo industriale’, nonché la capitale dell’industria a partecipazione statale. Come osserva Maria Pia Donato in uno degli oltre venti articoli di ‘Storie Virali’, l’interessante pagina che il sito Treccani ha dedicato alle epidemie, ‘oggi come in passato, in guerra come nelle emergenze sanitarie, non siamo tutti uguali. Nel corso dei secoli le crisi hanno colpito più severamente i poveri, fragilizzato ulteriormente i deboli, isolato più duramente i marginali’. Di come ciò si manifesti nel capoluogo ligure parliamo con Stefano Gaggero, tra gli animatori di Genova Che Osa e curatore del dossier insieme a Lorenzo Azzolini e a cui chiediamo innanzitutto di spiegare il senso generale dell’iniziativa.
Puoi spiegarci il senso generale di questo dossier, chi siete e anche come questo tipo di ricerca si inserisce nel vostro progetto?
Questa ricerca è molto inserita nel lavoro che stiamo facendo. Noi esistiamo dal 2017, quindi siamo al quarto anno di attività e vorremmo portare un approccio diverso dentro la politica. C’è un problema, non solo genovese, e cioè una sinistra progressista che ha perso la vocazione alla ricerca finalizzata a immaginare di cambiare la società e, invece, si è adagiata sulla gestione dell’esistente. In questa città abbiamo visto amministratori che si facevano un vanto del talento tecnico ma poi dimostravano di non avere la capacità di creare scenari nuovi. E così alla fine, dopo una lunga serie di sindaci progressisti, l’ultimo è stato Marco Doria, ha vinto Bucci, che è espressione non di una destra moderata ma del fronte leghista più convinto.
Quali sono i temi su cui lavorate?
Lavoriamo su diversi filoni: il primo è il nostro centro studi. Pensiamo che per cambiare bisogna prima capire. Poi ci sono iniziative politiche molto specifiche, ma anche molto immediate. L’anno scorso, ad esempio, siamo stati tra i promotori della mobilitazione di solidarietà nei confronti dei migranti che ha portato in piazza 10.000 persone. Il terzo filone è l’organizzane di comunità, cioè la costruzione di reti di relazioni sul territorio con persone che condividono la nostra visione del mondo. L’anno scorso abbiamo impiegato quasi un intero anno per scrivere il nostro manifesto e il nodo fondamentale attorno a cui ruota è proprio il tema delle disuguaglianze. Naturalmente non abbiamo inventato nulla: come diceva Bobbio la sinistra nasce proprio per riportare avanti chi è rimasto indietro. Oggi però gli squilibri sono particolarmente drammatici: a Genova in particolare, in larga misura a seguito della deindustrializzazione, abbiamo fortini di benessere circondati da quartieri abitati da persone in gran parte abbandonate a se stesse.
L’epidemia e le cosiddette misure di distanziamento sociale si abbattono su questa geografia sociale ad alta frammentazione. Con quali effetti?
Faccio una premessa: concentrandoci solo sulla quarantena, che pure è necessaria per fermare il contagio, rischiamo di trovarci, una volta finita l’emergenza, con una situazione sociale più compromessa di prima. Questa è una delle ragioni per cui abbiamo pubblicato il dossier. Se dovessimo sintetizzare diremmo che fare la quarantena in appartamento di 40 metri quadrati in Valpolcevera o a Quezzi, due zone popolari della nostra città, è diverso dal trascorrerla in un attico di 120 metri in quartieri di élite come Albaro o a Castelletto. Ma non c’è solo questo aspetto. Forse a breve pubblicheremo un’altra ricerca sulle differenze in termini di alfabetizzazione digitale. Il 23% dei liguri non ha mai usato un computer, non più del 40% ha mai usato internet per attività come accedere a social network o a un conto bancario online, anche meno per interagire con le pubbliche amministrazioni. Questo in epoca di coronavirus è un problema, tanto più in una città dove il 45% dei nuclei familiari è costituito da una sola persona e il 39% degli over 75 vive solo.
Appunto, Genova è una città con un’età media molto alta. Come incide questo aspetto nell’attuale situazione?
Per un anziano che vive da solo uscire è una necessità, non una scelta sconsiderata, come pensa qualcuno. Nei giorni scorsi il governatore della Liguria Toti ha commentato le immagini della principale arteria commerciale di Sestri, uno dei più popolosi e popolari quartieri del ponente genovese, osservando che è ancora troppo affollata e accusando i sestresi di essere degli irresponsabili. Ma un anziano spesso è costretto a uscire per fare la spesa, per ragioni di salute o più semplicemente per avere due minuti d’aria. Tieni presente che prima della quarantena uscire per molti di loro era l’unico momento di socialità. Quando non hai amici perché molti sono morti, i parenti chissà dove abitano e non sei in grado di usare internet, trovare delle alternative non è facile. In questo senso il nostro dossier è anche un invito alla comprensione. La quarantena passerà e noi dovremo ricostruire in una situazione in cui non ci sarà soltanto l’emergenza economica, ma anche una questione sociale.
I pensionati rappresentano anche una sorta di welfare alternativo – lo chiamano welfare familiare – nel senso che la pensione o la casa di proprietà sono uno strumento con cui aiutare figli e nipoti. L’epidemia pertanto potrebbe avere un impatto non solo sugli anziani, ma anche sulle generazioni successive.
I dati sulla disoccupazione e sulle famiglie in cui nessuno dei componenti percepisce un reddito qui sono tra i più alti del nordovest – secondo la Banca d’Italia siamo all’8,2% contro il 4,9% – e questo, come facevi notare, pone un onere rilevante sulla popolazione anziana. Possiamo immaginare che a seguito dell’epidemia questa situazione peggiori. Da questo punto di vista – apro una parentesi – i buoni per l’acquisto della spesa potevano essere l’occasione per fare un monitoraggio. Invece assistiamo a una gestione sprovveduta da parte del Comune, ma anche il modo in cui sono costruiti i moduli per fare richiesta non aiuta. Ma torno al punto: ora chi ha un lavoro stabile avrà la cassa integrazione e può sperare che l’impresa per cui lavora riceva degli aiuti che gli garantiscano la continuità del reddito, chi invece ha partita IVA o lavora in modo precario o in nero si ritroverà senza lavoro punto e basta e questa minaccia riguarderà soprattutto i giovani. Questo metterà sotto stress il cosiddetto welfare familiare, perché secondo gli ultimi dati di cui disponiamo, ormai del 2015, la pensione media a Genova è di 1.056 euro al mese. Sono perlopiù pensioni da operai. Finché si tratta di integrare i pochi guadagni dei figli o dei nipoti va bene, ma non sono pensioni con cui mantenere più di una famiglia. In ogni caso l’espressione welfare familiare non ci piace: il welfare o è statale o non è.
In altre città si paventa un’ondata di affitti non pagati, perché molti inquilini non perderanno il lavoro e in molti casi anche i proprietari sono persone che col canone ci campano. A Genova com’è la situazione?
Nella nostra città credo che la percentuale di persone in affitto è bassa: secondo il censimento del 2011 le abitazioni occupate di proprietà sono il 72%. E’ relativamente poco ma non lo è in assoluto. Il tema degli affitti purtroppo però non è monitorato a sufficienza e questo è un problema, perché in realtà anche nella nostra città il tema della casa è strategico. Avere dei dati farebbe la differenza e perciò in proiezione futura dovremmo pensare a un censimento degli immobili. Ci aiuterebbe a capire, ad esempio, dove si concentrano le grandi ricchezze immobiliari. Ancora i dati della Banca d’Italia ci dicono che la Liguria è una delle regioni in cui si concentra una maggiore ricchezza patrimoniale – 382 miliardi di euro, di cui il 91% sotto forma di attività reali, in gran parte appartamenti. Ovviamente però questa ricchezza non è distribuita in modo uniforme. Se c’è bisogno di mettere a disposizione degli alloggi disporre una mappatura della proprietà immobiliare significherebbe poter introdurre delle misure per evitare di lasciare sfitti gli alloggi, ad esempio utilizzando la leva fiscale.
I centri città si stanno trasformando in quartieri vetrina, con negozi e uffici e sempre più gente va a vivere fuori. Genova sembra vivere una storia un po’ diversa, anche a causa della sua conformazione fisica, però la mappa delle case sfitte che avete pubblicato ci dice che in centro storico se ne concentrano molte. Anche qui il centro ha iniziato a svuotarsi?
In realtà a Genova una vera e propria ‘gentrificazione’ non c’è stata. Se a Milano la popolazione residente nel comune è diminuita mentre è cresciuta quella dell’area metropolitana, qui invece la contrazione demografica ha colpito sia il comune sia la provincia e questo spiega lo squilibrio demografico, nello specifico un’età media molto alta. Il centro, in particolare il centro storico, è stato densissimamente abitato fino al secondo dopoguerra: ci vivevano circa 50.000 persone, perlopiù in condizioni disastrose, acuitesi con l’arrivo degli immigrati attirati dalle fabbriche. I casi di appartamenti con dentro magari una dozzina di persone e ai limiti dell’abitabilità non erano rari. Poi quell’area si è progressivamente svuotata, anche se dagli anni ’90, con il rimodernamento legato alle Colombiane del ’92, è tornata a manifestarsi la tendenza inversa. Alcuni appartamenti sono stati adibiti a uffici, ma sono arrivati soprattutto giovani con un tasso di scolarizzazione alto, laureati, professionisti, studenti universitari e soprattutto immigrati – nella zona di Prè un residente su tre è straniero – e questo fa sì che la zona registri un’età media tra le più basse. Ma accanto a questi giovani vivono ancora molti anziani soli, i ‘reduci’ della fase precedente.
Il lavoro che state facendo riprende un filone di ricerca sociale che in Italia ha avuto una tradizione importante, ma che col passare del tempo si è perso. Che tu sappia altri come voi hanno fatto o stanno facendo cose simili in altre città?
Qualcosina si è visto spuntare. A Roma, ad esempio, ho visto che hanno pubblicato dei libretti sulle disuguaglianze quartiere per quartiere. Qualcosa fa anche il Comune di Bologna, ma è un’attività istituzionale. Noi in realtà facciamo questo tipo di ricerca semplicemente perché ci serve per fare politica. Non avendo trovato altrove i dati che ci servivano ci siamo dovuti inventare di cercarci i dati da soli. Ogni nostra ricerca nasce con la propensione a dare vita a un’iniziativa politica in senso lato, anche solo per aprire un dibattito in città. Ma se questi dati li producessero le istituzioni saremmo più che soddisfatti.
Intervista tratta dalla newsletter di PuntoCritico.info del 7 aprile.
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