Genova
Vecchia sinistra, vecchia destra, caos 5S: ecco il menù delle elezioni di Genova
Sorride. Da quando ha comunicato che non si sarebbe ricandidato, il sindaco uscente di Genova, Marco Doria, sorride. A volte una piccola smorfia, altre un accenno ironico, più spesso un sorriso aperto, rilassato. Per uno come lui, che della riservatezza, dell’understatement, della sobrietà e della serietà ha fatto un’arte, si tratta di una piccola rivoluzione.
Beh, non è difficile capirlo: il suo mandato, obiettivamente, è stato piuttosto anonimo, a essere generosi; la sua candidatura, cinque anni fa, è stata lanciata grazie all’intuizione di un gruppo di intellettuali cittadini, e Don Gallo ne è stato il sostenitore più attivo e convinto; ha beneficiato, alle elezioni primarie, dello scontro all’arma bianca – tutto interno al Partito Democratico – fra Marta Vincenzi e Roberta Pinotti, un capolavoro di autolesionismo diventato caso di studio in molte università; ha potuto contare sulla debolezza dei suoi avversari, un M5S che nel 2012 era già forza sostanziosa ma ancora minoritaria, e un centrodestra di cui nemmeno si ricorda il nome del candidato; ha potuto giovarsi, ancora, dell’ultima, ormai debole, spinta propulsiva della stagione dei sindaci “arancioni”.
E poi, certo, c’è stato lui, con la sua biografia: un uomo irreprensibile, docente universitario stimato, con una storia familiare di impegno politico – Giorgio Doria, il celeberrimo “marchese rosso” – che nella sinistra genovese è quasi leggenda.
Insomma, ha vinto, ma probabilmente, non convinto. Ha tenuto ferma la barra sul mantenimento dei servizi per le fasce più deboli, ha garantito la più assoluta onestà e sobrietà, ma non ha mai dato l’impressione che la sua giunta avesse una visione chiara della Genova del futuro. Tutti gli riconoscono di aver avviato importanti opere per la messa in sicurezza idrogeologica della città, ma non sono il genere di cose che portano consenso a breve termine. Ogni genovese è in grado di apprezzare l’eccellente lavoro fatto in ambito turistico, se non altro per l’invasione di persone che si aggirano per il centro cittadino con una cartina in mano e il naso all’insù, ma resta l’impressione che tutto questo non possa bastare.
Sicuramente, è stato penalizzato dall’essere solo, lui e la sua giunta, senza una maggioranza consiliare che avesse la voglia e la capacità di sostenerlo, nelle scelte e nel rapporto con la città. Il PD lo ha sopportato, con una insofferenza crescente ma palpabile dai primi giorni. La sinistra di SEL, in Consiglio, si è quasi subito divisa fra una parte più conciliante e una che non si è accorta di non essere all’opposizione. La sua Lista Doria, forte di un consenso significativo e di persone di valore, non è riuscita a mantenere quel rapporto con l’opinione pubblica che pure era stato creato nella campagna elettorale.
Negli ultimi tempi del suo mandato il sindaco si è retto su una maggioranza raccogliticcia, sempre sul filo del singolo voto, ma è un epilogo che si poteva immaginare già dall’inizio. Una maggioranza che nelle ultime settimane si è rumorosamente sfasciata sulla delibera “Amiu-Iren”, tre volte ripresentata e tre volte non approvata, con il sindaco che ha votato contro la mozione presentata dal PD, e approvata malgrado lui.
Quindi questa volta, direte, ognuno per conto suo ? No, non proprio.
Il “centrosinistra”, diciamo così, si presenta riunito attorno ad un nuovo candidato, Gianni Crivello. Assessore ai Lavori Pubblici nella giunta uscente, è un tipico esponente della sinistra cittadina: concreta, non giovane, nemmeno particolarmente innovativa. Non è detto che sia un male: spesso è preferibile un uomo un po’ grigio ma vero a figure più scintillanti ma percepite come artificiali. Almeno a Genova, città anziana che ama poco le novità, e niente l’ostentazione.
Dietro di lui ci sono il PD, con una lista non particolarmente brillante, che riflette lo stato di salute precario del partito genovese. C’è una seconda lista (A Sinistra) che comprende gli scissionisti di Articolo 1, che qui sono una realtà consistente già da molto tempo, cui si sono uniti i membri di SEL che non sono entrati in Sinistra Italiana, e una parte dei componenti di Rete a Sinistra; quest’ultima è stata un laboratorio politico cittadino, che ha prodotto iniziative interessanti, fino a che si è trattato di rimanere sul piano dell’elaborazione teorica; giunto ai nodi politici decisivi – cosa fai, con chi vai – sì è diviso, secondo tradizione. Ancora, a sostenere Crivello c’è anche una lista di spiccato orientamento civico, Genova Cambia, guidata da Simone Leoncini, presidente uscente del municipio del centro cittadino, che raccoglie persone ed esperienze che in questi anni hanno prodotto innovazione civica e culturale: raccoglie molte realtà significative, anche se rischia di rivolgersi ad una fascia molto ristretta, sociologicamente e territorialmente definita dell’elettorato (fuori dal politicamente corretto: rischia di raccogliere solo voti “fighetti” del centro storico).
Crivello sa di non essere una prima scelta: per lunghi mesi quasi tutto il centrosinistra genovese ha aspettato che a togliere le castagne dal fuoco fosse Luca Borzani, “doge” della Fondazione Palazzo Ducale, esempio di eccellenza nella divulgazione culturale di alto livello, forse una delle poche istituzioni di cui quasi tutti i genovesi possono andare fieri; anche lui, guarda caso, viene dalla classe dirigente del tempo che fu. Lo hanno inseguito per mesi, e più lui diceva “grazie, no” più tutti si convincevano che alla fine avrebbe accettato. No, alla fine non ha accettato, e si è dovuto rimediare in fretta e furia.
Le possibilità di successo di Crivello dipendono in gran parte da quanto riuscirà a tenere il PD cittadino. Si tratta di un partito che non si è più ripreso da quelle primarie del 2012, e che la batosta delle regionali 2015 ha se possibile ulteriormente mortificato.
Un partito che nel capoluogo appare particolarmente debole, mentre in altre parti della Regione, l’estremo levante ad esempio, l’organizzazione sembra tenere meglio. Gli ultimi dirigenti del PD genovese di cui si possa riconoscere lo spessore politico, sono ancora uomini e donne che vengono dal PCI: l’ex presidente della regione Burlando, il solito Mario Margini, la stessa Marta Vincenzi, ancora pesantemente coinvolta nelle vicissitudini giudiziarie legate all’alluvione del 2011. La generazione successiva non è che abbia brillato, né per iniziativa, né per autorevolezza: uomini e donne educati a vivere negli schemi della politica novecentesca, non hanno saputo orientarsi nel grande cambiamento. Senza nemmeno poter contare sulla pellaccia dura dei “vecchi”.
Nello stato maggiore del partito, Renzi è stato vissuto prima come un avversario, poi come un male inevitabile con cui scendere a compromessi, mai come una opportunità. La scelta di riproporre alle amministrative una tradizionale coalizione di centrosinistra, che pare tenuto insieme quasi esclusivamente dalla paura di perdere, è lì a testimoniarlo.
Solo Simone Regazzoni, intellettuale renzianissimo, già portavoce della sconfitta Raffaella Paita alle regionali di due anni fa, ha rumorosamente puntato i piedi, chiedendo le primarie e proponendo la sua candidatura. Sempre polemico e sopra le righe, ha dovuto prendere atto che la sua proposta non sarebbe passata, e si è fatto da parte. Possono non piacere, lui o le sue idee, qualche volta contigue a quelle della destra. Però gli va riconosciuto il merito della chiarezza: ha sempre sostenuto che lo schema “centrosinistra contro i barbari” fosse superato e incapace di parlare alla città; anche fra i tanti che lo hanno contrastato, il dubbio che possa avere ragione è forte.
Lo sfidante più accreditato è Marco Bucci, esponente del centrodestra. Manager nominato alla guida di Liguria Digitale dall’amministrazione regionale di centrodestra, è considerato un uomo capace. Il suo programma e le sue prime uscite, tra gaffe e banalità, non sembrano confermare quell’opinione. La vittoria di Toti alle regionali di due anni fa, comunque, sembra aver dato grande sicurezza alla sua coalizione, tanto che negli ultimi giorni il candidato si dice sicuro di vincere al primo turno. E’ tutto da vedere se la tradizione di sinistra e antifascista della città riuscirà a digerire un raggruppamento che comprende razzisti dichiarati e fascisti storici, ma certo non lo si può escludere. Lo stesso Toti sa che si tratta di una sfida difficile, ma non impossibile. Alla presentazione di Bucci ha dichiarato baldanzoso che si trattava di “conquistare Stalingrado”, incurante del parallelo che istituiva fra il suo candidato e i nazisti del generale Von Paulus. I social media lo hanno massacrato, come due anni fa quando ha collocato con disinvoltura Novi Ligure in Liguria, ma la massa degli elettori spesso guarda a cose un po’ più concrete, e tende a lasciar perdere le battaglie a colpi di hashtag: due anni fa, infatti, il centrodestra ha vinto.
Poi, sì, ci sono i grillini. Che a Genova prendono una marea di voti, e che a Genova si sono divisi in maniera spettacolare, e discretamente comica. Per cominciare, nel corso degli ultimi cinque anni hanno visto allontanarsi Paolo Putti, che l’ultima volta era candidato sindaco, e che è entrato progressivamente in contrasto con la leader in consiglio regionale Alice Salvatore, fedele interprete del verbo di Sant’Ilario. Putti – per inciso – sarà candidato anche questa volta, a capo di Chiamami Genova, una coalizione che raggruppa appunto gli ex-M5S, Sinistra Italiana, Possibile,
Poi, la città ha vissuto la straordinaria vicenda delle primarie a 5 stelle per il sindaco, le comunarie. Basate su una pre-selezione dei candidati discretamente cervellotica, hanno visto la solita modesta partecipazione online, e si sono concluse con la vittoria di una candidata, Marika Cassimatis, che non era quella voluta dalla Salvatore e dallo stato maggiore. Il candidato prediletto, Luca Pirondini, è arrivato secondo.
Com’è come non è, nel giro di qualche giorno le comunarie sono state invalidate, sulla base di cavilli che nessuno ha capito, e la Cassimatis è stata allegramente fatta fuori. Grillo si è rivolto alla base dicendo “fidatevi di me” – la sua interpretazione della democrazia partecipativa – e poi ha indetto una nuova votazione, aperta a tutti gli iscritti d’Italia. Quesito: “volete Pirondini o a Genova non ci presentiamo ?”. Sembra incredibile, ma è passato Pirondini.
Cassimatis, dopo un po’ di battibecchi e qualche minaccia di adire a vie legali, si è rassegnata e ha deciso di presentarsi autonomamente.
Anche per tutto questo, la loro campagna sembra sottotono, e tutti prevedono che Pirondini arriverà terzo. Ma è lecito aspettarsi sorprese: probabilmente l’elettorato dei 5 Stelle non si farà condizionare dalle vicende sopra ricordate, e, anzi trarrà dalla marea di giustificatissime critiche che sono piovute da ogni parte la convinzione di essere sotto assedio da parte del sistema che teme il cambiamento: lo spirito critico, da quelle parti, non abbonda.
Insomma, sembra di vedere proiettato il solito film: una città anziana e stanca, refrattaria ai cambiamenti, rassegnata al declino, ingarbugliata in mugugni e recriminazioni. La città immobile dell’eterno “maniman” (“non si sa mai”, per i foresti).
Tuttavia, come dice il riuscito claim che accompagna il nuovo logo cittadino, #genovamorethanthis, c’è più di questo. C’è una città burbera e “superba”, che guarda di sottecchi i turisti che a frotte la percorrono, si lamenta per abitudine e si inorgoglisce in silenzio. C’è una città creativa e ricca di saperi, una generazione più giovane che vorrebbe innovare senza essere costretta a scappare nella amata e odiata Milano.
Genova è “un mondo che contiene molti mondi”: che i candidati a queste elezioni sappiano rappresentarli, è un dubbio che in tanti ci portiamo dentro.
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