Genova

Al funerale di Genova, che non vuole morire

18 Agosto 2018

Fa un po’ impressione scendere verso il padiglione Jean Nouvel per un funerale. A fianco c’è il mare, ci sono le barche, l’ultima volta che ci sono stato era per il Salone Nautico. Oggi sul fondo c’è una grande tendone rosso, un enorme crocifisso processionale, un altare. Davanti, le bare. Non tutte, lo sappiamo: qualcuno ha preferito il funerale privato, altri lo hanno scelto in polemica con uno Stato che non ha saputo garantirgli almeno l’incolumità, che ha lasciato che un ponte cadesse sotto le auto, come in un film catastrofico. Ma Godzilla, questa volta, non c’entra.

Mentre la gente si accalca, vedi in controluce la città, la sua composizione sociale. Vedi una signora piuttosto elegante, vestitino blu e filo di perle, capelli impeccabili e un piccolo ventaglio, e pensi: Albaro, il quartiere elegante del levante. Accanto ci sono tre anziani, uno lungo lungo, secco, con i baffi, la copia asciugata di Gino Paoli. Racconta agli altri due che lui viene da quella zona, che ci ha anche abitato, vicino al ponte, quando lavorava all’Italimpianti. E ti ricordi che questa città, pensa la beffa, è stata in passato non solo la capitale dell’acciaio di stato, ma anche un posto di gente che impianti e strutture le ha costruite in tutto il mondo. Poco più avanti ci sono gruppi di ragazzi, coppie con i caschi, in sandali e tenuta da mare, che si sono detti che no, oggi il mare può aspettare qualche ora.

C’è un dolore silenzioso, una rabbia pacata, forse rassegnata. Un grumo di emozioni che aspetta di essere espresso. Da martedì Genova è allucinata, ha ripreso piano piano le sue attività, ma in ogni angolo non si parla d’altro, si scuote la testa pensando alle vittime, agli sfollati, al futuro. I funerali sono la prima occasione di cordoglio collettivo. Le autorità cittadine si sono mosse rapidamente, e con efficienza, per gestire l’emergenza. Ma non hanno sentito, il sindaco in primis, il bisogno di offrire un momento in cui ritrovarsi insieme, prima di questo. Chi si aspettava almeno un intervento televisivo, per parlare alla città sconvolta, è rimasto deluso. Eppure mai come in questi frangenti ci si sente comunità, e si ha bisogno di una voce che guidi e rassicuri.

Nel padiglione ci sono due ingressi per le autorità: dal primo, più defilato, arrivano Conte, Fico, la presidente del Senato e poi Mattarella; dal secondo, che scorre accanto a una tribuna del pubblico, entrano Di Maio e Salvini, insieme. Grandi applausi da alcuni, fischi e urla da altri. Quando si intravvede qualcuno del PD, che qui ha governato il comune fino a un anno fa, partono gli insulti. Ma tutto, alla fine, con meno energia del previsto. Persino l’applauso a Mattarella è sentito, rispettoso, forte ma non eccezionale. Come a sottolinearne l’impotenza.

I boati ci sono, ripetuti, ogni volta che appare una divisa: vigili del fuoco, protezione civile, carabinieri, pubbliche assistenze… gli unici che hanno “fatto” qualcosa, gli unici che sembrino meritare fiducia. E quando arrivano i giocatori di Genoa e Sampdoria, insieme e mischiati. Potrà far sorridere, ma quei ragazzi un po’ smarriti che entrano nel grande spazio, senza saperlo, parlano dell’unità di cui abbiamo bisogno.

Il cardinale Bagnasco, che celebra la messa, parla con solennità, e ricorda che i genovesi sono persone di grandi sentimenti, che amano tenere riservati. Italo Calvino li definiva “stirpe laconica quant’altri mai”. Hanno ragione entrambi, e si vede chiaro quando la folla applaude ogni volta che sui maxi schermi compare la bara di un bambino, il volto disfatto di un parente, un anziano pompiere, una corona con scritto solo “I genovesi”. Tutti con gli occhi lucidi, tutti che fanno a gara a nasconderlo.

Al termine della messa, la comunità islamica recita una preghiera pubblica per i deceduti che erano di religione musulmana. Al termine un membro della comunità dice poche parole: parla della “nostra Genova”, ricorda che “Zena” in arabo vuol dire “la bella”, e decidiamo lì per lì di fidarci. Dice che “ci rialzeremo, insieme”, e riceve l’applauso forse più lungo della giornata.

Ora si può tornare: al mare, al lavoro, a pensare a cosa succederà. Ieri Ansaldo Energia è riuscita a far uscire una enorme turbina dal suo stabilimento, che è praticamente sotto il viadotto crollato. Dicono che hanno voluto dare un segnale di speranza, e Dio solo sa quanto ce ne sia bisogno.

Si risale verso l’uscita, e partono le sirene del porto. Ora si può davvero piangere, senza farsi troppo vedere, con quella faccia un po’ così, che abbiamo noi.

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