Genova

La crisi della fiducia e l’alternativa necessaria alla politica dello scalpo

16 Agosto 2018

Una profonda crisi di fiducia attraversa la società italiana, una crisi che non accenna in alcun modo ed esaurirsi e che investe sempre nuove dimensioni dell’organizzazione sociale. E che alimenta, contestalmente, sempre nuove strategie discorsive e comportamenti politici fino a poco prima impensabili.

La crisi di fiducia investe anche i cosiddetti sistemi socio-tecnici, ovvero tutti quegli insiemi di attori, regole e procedure che riguardano la produzione di qualcosa che implica un elevato uso di conoscenze per così dire “pratiche”, ovvero che hanno conseguenze dirette sull’organizzazione sociale. Con l’avanzare delle riforme neo-liberali dell’economia e della società, questi sistemi sono diventati sempre più complessi ed affollati di attori diversi che, stando a quanto promesso da quelle riforme, avrebbero dovuto giocare ruoli diversificati tali da bilanciarsi e controllarsi vicendevolmente.

Ormai gran parte delle nostre politiche pubbliche é fatta da attori “privati”, attori che nel caso siano imprese capitalistiche legittimamente perseguono la remunerazione dei propri capitali (glielo ha permesso la legge) a condizione – questo era il principio predicato da quelle riforme – del rispetto di alcune norme, procedure e standard che garantiscano la produzione dei beni e dei servizi di cui sono responsabili assicurando al contempo la protezione di alcuni beni collettivi. La sicurezza delle persone, anzi l’incolumità verrebbe da dire, è ovviamente il primo di questi beni che secondo le riforme neo-liberali doveva essere sorvegliata dallo Stato – che, si diceva, doveva sempre di più sorvegliare e regolare e non più agire direttamente – ma anche in fondo affidata all’interesse degli stessi attori privati incentivati a mantenere una buona reputazione di fronte agli investitori ed ai consumatori. Certo non scopriamo oggi – in Inghilterra se ne parla, ad esempio, già alla fine degli anni ottanta – che la realtà e ben più complicata di quanto facesse pensare il discorso di quelle riforme.

Di riforme neo-liberali ne abbiamo avute in Italia e oggi molti sistemi socio-tecnici – le infrastrutture autostradali ne sono un esempio – sono gestiti direttamente da attori privati. Molto si è scritto, e ben prima dell’immane sciagura di Genova, del carattere particolarmente perverso – scrivo particolarmente perché per molti tali riforme erano di per sé perverse – dei modi in cui tali riforme sono state realizzate in Italia. Riforme che di frequente si sono risolte nell peggiore esito possibile, ovvero nella formazione di sistemi contestualmente privi della concorrenza promessa dal mercato e della garanzia dell’interesse pubblico promessa dallo Stato. In tali condizioni, la sfiducia che ha sempre caratterizzato le istituzioni in Italia si è allargata a dismisura all’insieme degli attori che oggi producono questi sistemi.

Se la “governance” diventa allargata anche la sfiducia si allargherà venendo a comprendere tutti quelli che, di questa governance, fanno parte. Non ci si fida delle imprese che sono accusate di badare al “profitto” (il discorso sul “business” come logica strutturante del comportamento di molti attori, scoperta quantomeno attardata da parte di diversi esponenti del mondo politico) e non ci si fida dello Stato che si accusa di non sorvegliare – o, peggio, di non sorvegliare perché coinvolto in transazioni opache e corruttive con le imprese– ed alla fine, elemento nuovo, non ci si fida più nemmeno delle competenze scientifiche e tecniche che della produzione e gestione di tali sistemi sono un ingrediente ovviamente indispensabile (su questo un discorso dai termini molto diversi meriterebbe, ovviamente, il conflitto attorno ai vaccini su cui Antonio Scalari ha meritoriamente ed estesamente scritto su Valigia Blu). Le riforme neo-liberali hanno diffuso non solo il potere – fra determinati attori, le imprese e i capitali finanziari prima di tutto e, in alcuni casi, forse i consumatori – ma anche la sfiducia che, in Italia, è come noto un fattore storico e largamente cronicizzato del nostro sistema sociale.

Per la verità, tutto questo non è una questione solo italiana. La crescente sfiducia, o meglio la riflessività e quindi la richiesta di maggiori informazioni e garanzie, è un elemento strutturale delle società avanzate. Più aumenta la complessità del sistema sociale, più aumentano i rischi cui è esposta tale complessità e più aumenta la scolarizzazione (fattore di cui ci dimentichiamo a fronte dell’apparentemente inarrestabile imbarbarimento della vita pubblica) e maggiore sarà la pressione della società sulle decisioni pubbliche e specie su quelle che hanno a che fare con rischi reali e percepiti. Alla fine è questo l’insegnamento fondamentale, che si dovrebbe sempre tenere a mente, delle teorie di Ulrich Beck sulla “società globale del rischio”. Il problema, e l’originalità del caso italiano, intervengono quando tale sfiducia raggiunge livelli elevatissimi in contesti nei quali da sempre la fiducia é risorsa scarsa e da sempre la capacità del sistema sociale di accrescere la propria efficacia nel gestire tali rischi è tutt’altro che evidente, anzi (da questo punto di vista la fequenza di determinati fenomeni é, da tempo, ben al di là della soglia dell’ordinario e quindi del tollerabile).

Il cosiddetto “populismo”, e la sua pratica concreta nel contesto italiano, ha a che fare anche con questo insieme di problemi e con le domande di una società abbastanza complessa da essere esigente ma non abbastanza complessa da produrre le risposte che reimmettano nel sistema sociale un pò di fiducia. I disastri territoriali sono un esempio perfetto di tale situazione, con problemi – l’invecchiamento dei patrimoni edilizio e infrastrutturale, la sua crescente esposizione a rischi di ogni genere e l’incapacità dello Stato ma anche degli attori privati di occuparsene in modo efficace – che stanno diventano progressivamente “intrattabili”. In questo si inseriscono anche gli effetti delle riforme neo-liberali che in Italia, per bocca degli stessi liberali (quelli intellettualmente onesti) hanno socializzato le perdite, probabilmente drammatizzato i rischi e privatizzato i profitti generati da sistemi che hanno a che fare con asset fondamentali della nostra vita in comune (quale ad esempio il sistema autostradale nazionale). In altre parole, l’impressione é che proprio mentre ci avvicinavamo rapidamente all’apice del manifestarsi di determinati rischi e tendenze – ad esempio quelli legati a un patrimonio che invecchia e degrada – ci privavamo privati dei sistemi giusti per occuparcene, di fatto esacerbando tali rischi e tendenze.

In questo quadro l’offerta immediata dello scalpo messa in scena con una virulenza e rapidità sorprendenti da parte del governo in seguito all’immane sciagura di Genova diventa una risposta politicamente conveniente che evidentemente risponde ad una determinata psicologia collettiva che abbiamo imparato a conoscere. Tuttavia, i “discorsi” ad essa associata affrontano (ovviamente inconsapevolmente) proprio i dilemmi della società neo-liberale del rischio – lo Stato che non controlla, i privati che rimangono tali facendo i loro interessi, le competenze tecniche contese in questo sistema opaco o, nei casi migliori, conflittuale, la complessità che cresce ed rischi che aumentano – offrendo immediata soddisfazione a una furia popolare che sempre di più investe tutti gli attori di questi sistemi indistintamente. Una furia popolare che, intendiamoci, é legittima e di cui chi scrive si sente pienamente partecipe per l’assoluta inaccettabilità di questo ennessimo, grave disastro territoriale. Ma che, di certo, risulta oggetto di strategie discorsive ingannevoli anche perchè di frequente portatrici di limitatissimi effetti reali.

In particolare, nel frangente di questa sciagura colpisce la vistosa accelerazione e intensificazione di questa logica dell’offerta dello scalpo che attraverso questa nuova figura demiurgica, l’ “avvocato del popolo”, riesce addirittura a superare una delle forme essenziali con la quale la sfiducia strutturale che caratterizza la società italiana si è espressa negli ultimi trent’anni ovvero il “giustizialismo”. Quel “non possiamo attendere i tempi della giustizia” pronunciato dal Presidente del Consiglio “avvocato del popolo italiano” (ora capiamo meglio cosa si intendeva con quell’evidentemente abile, allora derisa, invenzione mediatica) rappresenta infatti una novità assoluta che pare indicare il passaggio a una nuova situazione dagli sviluppi imprevedibili e dagli effetti potenzialmente decisivi. Laddove determinati discorsi, si pensi ad esempio a quello sul “business dei migranti”, hanno fatto leva inizialmente su alcune indagini della magistratura che come noto non hanno portato ad alcuna evidenza ora si preferisce eliminare anche quest’ultimo livello di mediazione giungendo allo scontro, diretto e in alcun modo mediato, fra “rappresentanti della furia popolare” e colpevoli del disastro (che, ovviamente, un’indagine della magistratura potrebbe effettivamente individuare come responsabili di determinati, gravi, reati). Ogni singolo evento diviene quindi il terreno ideale per esercitare una forte capacità di reazione e denuncia capace di combinare diversi registri, quello tradizionale del singolo colpevole (il Ministro Salvini nelle prime ore) da punire con quello del sistema corrotto (il Ministro Di Maio oggi). Senza tuttava, e questo è l’elemento fondamentale, proporre reali e impegnativi processi di riforma che ovviamentre implicherebbero conoscenze e capacità che vanno largamente al di là delle possibilità della compagine governativa (sintomatica, fa questo punto di vista, la ritirata pressochè immediata dall’orizzonte più politico della rinazionalizzazione delle concessioni a favore di un confronto violentissimo con un singolo concessionario su di una singola tratta).

La risposta a questa profondissima crisi della fiducia ed a questo suo disinibito uso politico non può tuttavia essere l’apologia dei sistemi socio-tecnici esistenti – non solo ecidentemente infondata ma anche di improbabile successo – oppure un’ingenua fiducia nella “tecnica” genericamente intesa che, per l’appunto Beck insegna, risolve molti problemi creandone sempre di nuovi che vanno trattati non solo “tecnicamente” ma anche, per l’appunto, “politicamente” e “socialmente” (vale a dire in modo riflessivo). Né può essere la mera difesa, ovviamente di per sè giusta, degli istituti dello stato di diritto (l’idea e la pratica del “conosciamo i colpevoli” a poche ore segnalano da questo punto di vista un altro, allarmante, passaggio di fase cui ovviamente ci si deve opporre senza condizioni) oppure dei dispositivi contrattuali che hanno accompagnato le politiche neo-liberali (i contratti non sono creature del cielo, rappresentano determinati equilibri fra interessi che possono essere più o meno equi nei confronti dell’interesse collettivo). Quello che ci vuole é l’impegno per una profonda riforma delle nostre politiche pubbliche e dei meccanismi che le mettono in opera. Se non si riconosce la forte, fondata e legittima insoddisfazione sociale che ne caratterizza la messa in opera sarà infatti difficile confrontarsi credibilmente con la logica selvaggia dell’offerta istantanea dello scalpo del colpevole di turno al manifestarsi di ogni crisi.

Egualmente, la mera invocazione del principio della competenza opposto a quello dell’incompetenza non appare credibile nel contesto italiano. Non solo perché tale principio è stato, come noto, più volte utilizzato per giustificare e legittimare determinate peculiari se non uniche soluzioni politiche (perfino in questo governo il ministro dell’economia si dice sia stato scelto in base a quel principio) che sono state anch’esse oggetto di una forte e diffusa insoddisfazione sociale (circostanza che, in democrazia, conta).  Ma anche perché, come evidente, il problema non é tanto quello del far decidere i “competenti”, ovvero chi é a capo di determinati sistemi e portatore di determinate conoscenze, ma di ridefinire collettivamente quali sono i beni collettivi che tali competenze devono garantire in modo concreto ed esigibile.

Quello che ogni sciagura ci ricorda é che non siamo evidemente capaci di definire che cosa sia l’interesse pubblico e di darci gli strumenti e le conoscenze per perseguirlo. Strumenti che possono essere anche quelli della ripubblicizzazione di determinati servizi e infrastrutture – cosa diversa e ben più ambiziosa e concreta del chiedere lo scalpo di una singola azienda o di una singola persona o famiglia – nel quadro di una politica che risponda a tante altre domande (sul modello di trasporto, ad esempio, che oggi come noto é  disastroso dal punto di vista della sostenibilità ambientale e territoriale).

Per fare questo ci vogliono riforme – profonde, lungimiranti, impegnative – che sacrifichino serenamente interessi privati e che riaffermino un’idea robusta di interesse collettivo senza la quale la fiducia nella democrazia, e nelle competenze di chi la gestisce, rimarrà solo un miraggio. Un miraggio sempre più lontano che, un giorno, potrebbe sparire del tutto.

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