Firenze
Soli nella solitudine. Confessioni di un abate al tempo della quarantena
Da giovane che non era “affatto un tipo da parrocchia”, come si è autodefinito lui stesso, ad abate di San Miniato al Monte e a predicatore degli esercizi spirituali davanti a Papa Francesco. “Non me lo sarei mai immaginato” – ci dice Dom Bernardo Gianni (sì, proprio così, “Dom” con la “m”, abbreviazione del latino dominus), oggi una delle voci più riconosciute della nuova spiritualità – “Anche perché, mi lasci dire, se così fosse sarei partito proprio col piede sbagliato”. Risponde al telefono con mezz’ora di ritardo rispetto all’appuntamento fissato. Si scusa più volte, ma la vita di un abate è piena di impegni. Mi viene spontaneo chiedergli se l’abate sia un uomo di potere. “Purtroppo si, inutile girarci intorno. Per questo San Benedetto è stato molto esigente: il nostro servizio dev’essere autorevolezza e non autorità, esempio e non supponenza”. Questa è la storia (e il pensiero) di un uomo che andava spesso a San Miniato con la propria fidanzata. Lo stesso uomo che, quasi trent’anni dopo, di quel luogo è diventato abate.
Dom Bernardo, come ha trascorso questi mesi di clausura? Mi verrebbe da dire che per lei sia cambiato ben poco…
Beh, indubbiamente il confinamento geografico è tipico dell’esperienza monastica. Ci è mancata però l’accoglienza delle persone, un aspetto essenziale della vita benedettina. Una tradizione che risale ai pellegrini del Medioevo e che per un monaco consiste nell’incontro con la reale presenza di Cristo forestiero. Siamo stati costretti ad una solitudine nella solitudine.
Una solitudine che per molti è stata un’occasione sprecata. Lo scrittore Alessandro Baricco ha detto di essere “rimasto avvolto dalla nebbia”. Come se lo spiega?
Noi monaci dobbiamo misurarci con una tipica tentazione dell’esperienza monastica, l’accidia. Il rischio è quello di precipitare nell’inconcludenza, nella sterilità psico-spirituale, e non riuscire a coltivare quel buon fermento in vista di una fruttificazione futura. Un passaggio, quest’ultimo, molto difficile da compiere tanto che spesso il monaco sperimenta, come ben descritto da Petrarca, una “paura nella trasformazione”. Quello che poteva essere un ozio produttivo alla fine si rivela una sorta di palude.
Una trasformazione che lei, quella notte di Natale del 1992, quando tutto iniziò, non ha avuto paura di compiere…
In realtà tra la notte della mia conversione nella Chiesa di Rosano e l’ingresso in monastero sono trascorsi quattro anni. Un periodo che mi è servito per capire se la mia fosse una svista generata da megalomania o se invece, come spero, la bontà e la misericordia del Signore si sono degnate di posarsi su questo strano personaggio chiamato Bernardo.
Cosa ricorda di quegli anni?
La gioia nel constatare come nel cammino di fede ci siano spazi di gratuità dove la priorità non va né al merito né alle prestazioni ma solo all’amore ricevuto e infuso nei nostri cuori, al di là di quello che siamo e valiamo.
Oggi credere sembra una scelta marginale, in via d’estinzione. In molti, anche tra i più giovani, dicono di essere alla ricerca di una “fede più personale”…
Sinceramente non mi sento di demonizzare espressioni di questo tipo. La fede, anche nel contesto di una comunità ecclesiale ben definita, dev’essere un’esperienza personale. Nel tempo odierno, segnato dal primato dell’io, stroncare sul nascere questa idea è come darsi la zappa sui piedi per la Chiesa. Bisogna accostarsi a queste ricerche personali con molta umiltà e rispetto. E questo vale soprattutto per i giovani, che a differenza di quello che si crede hanno molta sete di mistero e di grandi domande.
Le chiese però continuano ad essere sempre più vuote…
Valutare la fede della nostra gente con i numeri di coloro che partecipano alla messa è una terribile fissazione. Come se poi questo significasse automaticamente avere fede. Troppe volte non è così.
A proposito di fissazioni, in questi mesi si è discusso molto sul peso dato dalla Chiesa alla celebrazione dell’eucaristia. Esiste una sorta di fissazione per la messa?
Certamente la nostra vita si nutre e si radica attraverso i sacramenti. Però l’incapacità di ampliare la nostra percezione del mistero è spesso anche il segno di una fede che non abbiamo abbastanza educato a una maturità e anche ad un certo rischio spirituale. Cristo è anche il povero, è anche quella dimensione di sofferenza che una sensibilità più evangelica e meno gerarchizzata potrebbe lasciarci intuire. Qui servirebbe la stessa creatività, pur lodevole, con la quale si è cercato di accorciare, in questo periodo, le distanze tra l’altare e le case della gente.
Torniamo un attimo a quella notte di Natale di tanti anni fa. Cosa ci faceva in quella chiesa un militante della sinistra giovanile?
Militante forse è un po’ esagerato, ma di certo appartenevo a quell’area politica. Ci andai su invito di un amico, Tommaso Fattori, o forse dovrei dire di un “compagno” di militanza, che mi proponeva una notte di Natale diversa, spinto da un interesse estetico-antropologico verso il canto gregoriano e una liturgia monastica femminile in un contesto di grande fascino.
E poi cosa è successo?
Quella notte veniva ad iscriversi in un percorso già segnato dai grandi interrogativi destati dalla sofferenza incontrata con la frequentazione di persone disabili e dalla scoperta del grande portato culturale del Medioevo. C’erano quindi delle premesse che non avevano ancora una risposta.
Lei, da laureato in lettere, parla spesso del Medioevo. Evidentemente non è un’età così “buia” come ci insegnano a scuola…
Assolutamente no. È un’epoca in cui assistiamo ad una ridefinizione dell’umano, di grande libertà, inquietudine e possibilità di affermare nuove antropologie. Un fermento che ha ancora molto da insegnarci e che ha una grande capacità di intercettare le inquietudini del nostro presente che fatica a riconoscersi nell’uomo-macchina. E lo dico senza alcun spirito nostalgico, sia chiaro.
È ancora in contatto con quel Tommaso Fattori che la convinse ad andare in chiesa?
Ma certo! Siamo ancora molto amici. Abbiamo preso strade diverse ma assolutamente complementari e, soprattutto, mosse da istanze di bene, giustizia e bellezza.
Nelle meditazioni che ha scritto per Papa Francesco in occasione della Pasqua dello scorso anno c’è molto della sua “fiorentinità”. A partire dalla sua passione per la poesia e per il poeta Mario Luzi…
Monasticamente parlando, un monaco mai prescinde dal luogo dove pensa che il Signore lo abbia chiamato a vivere. San Miniato si caratterizza per uno sguardo strabico, con un occhio che guarda al cielo e con l’altro che guarda verso la città degli uomini e delle donne. Ed è proprio questa tensione strabica che ho voluto raccontare al Papa, immaginandolo uomo e pastore appassionato di visioni che definirei non perfettamente monoculari. E la poesia, in particolare quella di Luzi, si è rivelata molto utile.
Tra l’altro tra Luzi e San Miniato c’era un rapporto speciale…
Si, Luzi scrisse per noi diversi componimenti. Ricordo in particolare una poesia del 1997 dove il poeta ha mirabilmente riassunto il senso di una memoria che si riconosce nel patrimonio, anche novecentesco, di quanto San Miniato ha rappresentato, con la frequentazione di la Pira e tanti altri. Una memoria che con il desiderio ardente si trasfigura in quell’attesa di futuro che è esattamente uno dei temi portanti del pontificato di Francesco.
Si è mai chiesto per quale motivo una persona venga a San Miniato?
San Miniato è un luogo che parla a tutti. La posizione collinare e la capacità di generare visione sulla città dall’alto rendono San Miniato lo spazio che riequilibra il senso della nostra appartenenza, che ci restituisce un’idea di memoria, insieme a tutto ciò che è consegnato al presente, ispirandoci anche domande sul futuro. E sapesse quante coppie di fiorentini e non si sono fidanzate davanti a quella facciata! Ecco, la ragione dietro ad una visita a San Miniato è certamente quella di dare un futuro al proprio presente.
Lei c’era già stato prima di entrarvi come monaco?
Si, certo, tante volte. Anche con la mia ragazza!
Firenze era, ed è ancora, Giorgio La Pira, il “sindaco santo”, spesso considerato alla stregua di un “monumento intoccabile”. Una definizione che a lei non piace però…
Il rischio che corriamo ogni volta che “monumentalizziamo” qualcuno è quello di “gessificarlo”. Di un’esperienza viva forniamo così un’interpretazione statica. Ed è quanto più lontano possibile da ciò che vorrebbe lo stesso La Pira, anche per le sue coraggiose aperture profetiche. La Pira aveva una solida cultura giuridica, spirituale e teologica che lo rendeva capace di apparenti ingenuità ma che in realtà erano quei gesti simbolici che rendono il profeta capace di sconcertare ma allo stesso tempo anche di aprire la strada di un popolo intero verso il futuro.
Essere abate comporta una serie di impegni “extra-religiosi”. Non si corre il rischio di perdere di vista quel “quaerere Deum” di cui parla spesso San Benedetto?
Sicuramente, anche perché è un rischio insito in qualsiasi percorso spirituale. La vita monastica per fortuna garantisce, salvo qualche eccezione, un costante ritorno alla sorgente attraverso la scansione liturgica nell’arco della giornata. Anche se si inseriscono ostacoli, seduzioni, le risorse che abbiamo a disposizione sono veramente tante. A partire dalla campanella che tra poco sentirà e che annuncerà l’ora della preghiera: uno dei tanti strumenti attraverso i quali il Signore mi esorta a riprendere il filo delle cose più essenziali.
Con tutti questi impegni, riesce a trovare il tempo per leggere qualcosa di diverso da San Tommaso o Sant’Agostino?
Purtroppo non molto. Forse è proprio per questo che negli anni mi sono sempre più appassionato alla poesia. Una sorta di miracolo dove con poche sillabe si condensano tante esperienze di verità e bellezza. Letture che, però, mai vivo come alternative alle grandi letture bibliche.
In questo periodo di emergenza sanitaria, esiste a suo parere anche un’emergenza “culturale”?
Spesso ci dimentichiamo che la persona non è solo corpo o solo psiche o solo spirito, bensì una piena integrazione di tutte queste dimensioni. Dinanzi alla sofferenza fisica, quindi, sorge la necessità di elaborare modelli e prospettive che curino la psiche e lo spirito. Per questo esistono le culture, che disegnano nuovi paesaggi esistenziali come risposta a quello che la storia ci fa vivere. Sotto questo profilo mi pare che non ci sia stata una grande elaborazione. E poi, scusi, mi lasci aggiungere una cosa.
Prego…
È impressionante la povertà lessicale con la quale i vari passaggi del contagio sono stati banalmente classificati. Fase 1, Fase 2, e chissà cosa verrà dopo. Manca una capacità di leggere queste cose con una sensibilità più polifonica, intuitiva ed estetica. Solo la bellezza smuove il cuore della nostra gente!
Da appassionato di poesia, a quale poeta farebbe appello per uscire da questo momento di sofferenza e preoccupazione che stiamo vivendo?
Penso alle bellissime liriche di Margherita Guidacci, una poetessa che parla di libertà, di ali, di volo, di uccelli. Poesie che in un certo senso, con un linguaggio semplice ma non banale, suggeriscono possibilità preziose alla voglia di libertà che sta nel cuore di tutti noi dopo mesi di quarantena.
Nei giorni scorsi è venuto a mancare padre Nicola, il decano della famiglia olivetana. Lei lo ha anche ricordato sul suo profilo twitter con una foto bellissima. Quale insegnamento le ha lasciato?
Un grande amore per la vita. E una grande capacità di includere anche il linguaggio dei sensi nella nostra adesione alla vita stessa. Don Nicola ha saputo declinare la propria esperienza spirituale facendo dei propri sensi, dei propri abbracci e delle proprie passioni un luogo teologico. Con grande naturalezza, accoglienza ed entusiasmo. Pensi che quando mettevamo una sua foto su facebook si informava se fosse stata apprezzata o meno. Il tutto con innocenza, senza vanità.
Stiamo parlando da quasi un’ora e non mi ha mai citato Dante. Il che, per un fiorentino, è un po’ strano…
Non si può non riconoscere il valore assoluto di Dante. Ma, sinceramente, la mia sensibilità è più petrarchesca. Posso cavarmela così?!
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