Beni culturali
Ovidio La Pera. Relitti del secolo XX
Ci sono, in questo mondo attuale bombardato da informazioni, spesso da tanta spazzatura mediatica o pseudoculturale, diciamo più appropriatamente trash, piccole isole costituite da recuperi di frammenti archeologici, di pezzi di realtà passate che un tempo ebbero una certa fortuna e diffusione ma che poi vennero fagocitati dalla maggiore potenza (e presenza) della spazzatura.
Alla Galleria Fornaciai di Firenze, in Borgo San Jacopo, ogni tanto succede che questi frammenti tornino alla luce, pur per pochi fruitori, purtroppo, ma si sa che spesso i luoghi più piccoli e meno blasonati sono più attenti di quelli maggiori e rutilanti alla qualità piuttosto che alla notorietà (sarebbe meglio coniare il termine “mediaticità”) di artisti di grido, il cui grido si esaurisce dietro l’angolo il giorno dopo, sopraffatto da altre grida alla moda ma vuote, vuotissime, insulse, composte soprattutto da marketing fatto anche di scomposti quanto generici commenti sui social. Sì, oggi ciò che si vende è unicamente frutto di marketing, ossia dell’arte di confezionare il nulla per farlo sembrare qualche cosa, attualità splendidamente presa in giro dal film satirico-horror-surreale Velvet Buzzsaw (2019) di Dan Gilroy.
Non è così invece per l’interessante mostra monografica di questa piccola galleria, visibile fino all’8 marzo 2022, dedicata a un personaggio polimorfo che ha avuto una sua importanza, per le arti figurative, nel trentennio 1950-70 (ma anche i vent’anni successivi hanno un certo rilievo), e per le attività “esoteriche” negli anni dopo ancora.
Si tratta dell’artista a 360° Ovidio La Pera, siciliano di Agira (EN), che fu sulla cresta dell’onda a Firenze e Milano nel dopoguerra, con un’intensa attività artistica figurativa, tra pittura e scultura, ma che gradualmente fu quasi messo da parte da una critica d’arte che privilegiava sempre più il fatuo e l’inutile. E già, perché La Pera, eclettico ma con una componente pop molto evidente che si manifestò soprattutto nei ’70, aveva declinato la pop art di Warhol in una denuncia sociale ben più interessante della mera presa di coscienza, da parte dell’americano, della presenza invadente del consumismo nelle nostre vite. Che poi, diciamolo francamente, Warhol è ancora oggi assai sopravvalutato. Basti vedere i dipinti di La Pera di quel periodo, di come usi i simboli degli oggetti di consumo: un manifesto (stracciato) che pubblicizza viaggi intercontinentali per ricchi collo slogan snob “Pranzate a Milano e cenate a New York”, mentre in primo piano è il parco pasto operaio su un tovagliolo a quadretti, con gavetta e bottiglietta di vino, su un tavolo, colle ombre degli operai-migranti proiettate sul tutto, a ricordare che quella del manifesto è un’illusione irraggiungibile per la maggior parte della gente e che, anzi, per molti, quelle mete esotiche erano mete di speranza per un futuro. Warhol, nella sua gabbia dorata newyorchese, tutto questo non lo poteva percepire, e chi se ne frega delle sue Marilyn per daltonici o delle sue zuppe Campbell’s che sono lì, immobili, superficiali icone, lapidi cimiteriali e basta, senza quella carica e quell’interazione col mondo reale che invece traspaiono dai dipinti-parodie di La Pera.
Ovidio La Pera, che negli ultimi anni si firmava solo Ovidio, invece è un personaggio ben più profondo. Anche dai lati oscuri.
I temi molteplici dell’enorme produzione dell’artista siciliano affrontano la ritrattistica, la paesaggistica, l’astrattismo, le visioni oniriche, ma soprattutto uno, che scaturisce dall’osservazione del disfacimento sulla costa pugliese (dove risiedette) delle barche, il tema dei Relitti, evidenzia gran parte della sua attività dal ’64 in poi. Così negli scheletri di barche e barconi abbandonati sulle spiagge, in cui c’è anche il disfacimento della forma e del colore, La Pera intravede la metafora del disfacimento della sua epoca e del corpo umano che, più avanti, nel 1971, porterà al ciclo delle Inquietudini: qui la figura umana stilizzata viene deformata nelle figure ispirate ai demoni giapponesi Yokai, o alla strega Yama-uba, raffigurata da Hokusai, Kunisada e Hiroshige, che, insieme alle successive geometriche visioni metropolitane disturbate da corpi umani nudi e sofferenti, scoperchia la visione profonda dell’autore del mondo intorno a sé.
Abbandonata la pittura, con due ultime opere che ci dicono molto sul suo mondo, Angolo del mio studio e Ovidio ‘91, dove sono raffigurati i simboli e il suo mondo intellettuale e spirituale, si dedica totalmente alla traduzione dell’opera di Louis Claude de Saint-Martin (1743-1803) “il filosofo incognito”, pensatore francese di grande fama iniziatore del martinismo, e di Jacob Böhme (1575-1624), andando a pescare nel mondo più antico le radici di uno spiritualismo che lo toccò molto, soprattutto in un mondo moderno che lo spiritualismo aveva perduto o lo aveva trasformato in oggetto di consumo da pseudomistici harekrisna da musical di Broadway o da mercatino degli incensi della Fiera di Senigallia. È quest’attività di traduttore e curatore che oggi lo rende più famoso, almeno sulla rete, rispetto alla assai più lunga e interessante attività artistica precedente.
La mostra, e il prezioso catalogo, colle opere più significative, curati entrambi da Stefano Masi, sono il primo e speriamo non isolato tentativo di recupero delle opere di un autore estremamente stuzzicante che ci racconta molte cose in più di un’epoca, sapendo leggere tra le righe di una visione spesso troppo superficiale dell’arte di quel periodo. Lo studio di Masi, il primo in assoluto e il più esauriente sull’autore, affrontando cronologicamente e approfonditamente l’opera di La Pera nel suo polimorfismo artistico e intellettuale, contestualizzandolo a quegli anni, rivela la cecità consenziente degli osservatori esterni di quella stagione e la ragione dell’allontanamento volontario dell’autore da un mondo superficiale e fatuo. Proprio lui, uno dei pochi che possedeva le chiavi per interpretare quel mondo nel profondo, alla fine, lo abbandona. Assolutamente da non perdere.
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