Arte

Gianfranco Ferroni agli Uffizi. Una biografia breve

14 Maggio 2015

Si inaugura oggi a Firenze presso la Galleria degli Uffizi – Sala delle Reali Poste la mostra Gianfranco Ferroni. La luce della solitudine a cura di Vincenzo Farinella (aperta al pubblico dal 15 maggio al 5 luglio 2015). Pubblichiamo un estratto da Gianfranco Ferroni. Un saggio biografico contenuto nel catalogo che contiene testi di Vincenzo Farinella, Antonio Natali e Giacomo Giossi (Silvana Editoriale)

Ferroni Copertina

Livornese di nascita, ma milanese di formazione Gianfranco Ferroni muove i suoi primi passi in quell’eccezionale miscuglio culturale politico e sociale che è la Milano del secondo dopoguerra. Ferroni vive la propria infanzia tra i continui e obbligati trasferimenti famigliari al seguito del padre (ingegnere in una grossa azienda di ceramiche, la Ginori) e la guerra con il suo carico di morte e disperazione che lasceranno un segno indelebile nella formazione emotiva dell’artista. Gianfranco Ferroni alimenta la propria passione artistica inizialmente con timidezza e con quella riservatezza che lo caratterizzerà anche in seguito, una passione però impossibile da contenere all’interno dei muri della famiglia come della scuola.

A Milano Ferroni frequenta la casa di Franco Passoni, amico e critico con cui intraprenderà una personale formazione: sono anni di fervore e di grandi passioni culturali. Le ore scorrono rapide in biblioteca, il denaro è poco, ma Milano è al suo risveglio. Dopo gli anni del fascismo finalmente è possibile aprire le frontiere e allinearsi con gli altri paesi, Picasso è il punto di riferimento, il realismo a tratti fortemente ideologizzato è la corrente predominante.

La Biennale di Venezia del 1948 segnerà un’epoca portando in Italia oltre a Picasso una serie di personali dedicate a Kokoschka, Wotruba, Chagall e Moore. Con le opere realizzate nel 1949 Ferroni attira un primo interesse nella critica, tanto da essere ammesso con Il bambino morto alla Biennale del 1950, e sempre nel 1949 Ferroni si iscrive al Partito comunista italiano: ad un’aderenza sentimentale e politica ai principi e alle rivendicazioni vi si oppone una visione artistica ideologizzata e banalizzante e più in generale un’ortodossia di partito indigeribile per l’artista livornese che nel 1956 con i fatti di Ungheria strapperà definitivamente la tessera.

Gianfranco Ferroni, Le donne di Marcinelle 1956-1957
Gianfranco Ferroni, Le donne di Marcinelle 1956-1957

A fine anni Cinquanta Gianfranco Ferroni trasferisce il proprio studio in Corso Garibaldi presso la casa degli artisti, qui approfondisce la propria ricerca all’interno di una salutare confusione creativa: lo studio grande e luminoso è un mondo caotico fatto di giornali, libri e soprattutto dischi. La scoperta è il jazz ascoltato durante il lavoro e a ogni ora del giorno. La politica rimane sullo sfondo dei discorsi e delle parole, ma riempie il senso del suo lavoro artistico.

L’ossessione è per la città, con i suoi movimenti eccentrici e improvvisi, con i suoi ritmi brulicanti come malinconici (il cinema di Michelangelo Antonioni sopratutto). La città non come macchina, ma come corpo aggrovigliato: un corpo stanco, ma sempre costretto all’interno di un movimento obbligato eppure vibrante. La città esplode con i i propri segni che si fanno incisioni oltre le grandi luci dello studio, la città si auto-rigenera. Ferroni intraprende la pratica dell’acquaforte con decisione e passione: la dignità dei segni e delle incisioni quali mezzi pratici per sviluppare un discorso artistico e culturale.

Un’antropologia del segno che ricalca la condizione di disagio dell’uomo. L’analisi spaziale è il fulcro della ricerca ferroniana nei primi anni sessanta, la ricerca di un equilibrio grafico e di una pulizia che sia gesto controllato, ma non igienizzato estremizzano il lavoro di Ferroni. I toni cupi e duri si essenzializzano, il colore diviene gradazione di luce contrapposto all’ombra incombente.

Gianfranco Ferroni, Città 1961
Gianfranco Ferroni, Città 1961

Gli oggetti si fanno psicanalitici e la confusione diventa l’ordine chiarificatore di una realtà impossibile da ridurre o da incorniciare nel suo continuo dialogo con l’Io. Il taglio, l’incisione diviene così raffigurazione del frammento quale reperto del reale e della sua comprensione; lo spirito occupa in questo modo lo spazio nella sua concreta oggettualità. Il ritmo jazz di Ferroni assume fortemente i toni di una ricerca che compie il suo movimento in poesia come in filosofia attraversando e intercettando quello che sarà poi l’origine di un più vasto movimento nei suoi diversi strati sociali, politici e culturali.

Se il nuovo racconto, espressione coniata da Emilio Tadini di cui Ferroni è il principale rappresentante, si oppone all’ondata dell’arte americana e della pop art e in particolare della contestuale censura critica verso l’arte italiana figurativa, l’azione alla Biennale del 1968 è solidale con la contestuale protesta degli studenti. Protesta ed esaurimento della stessa all’interno di un periodo che va dal secondo dopoguerra e che Ferroni ha vissuto intensamente seppur nella riservata intimità del suo sguardo.

Gianfranco Ferroni, Grande natura morta 1982
Gianfranco Ferroni, Grande natura morta 1982

La storia non finisce, ma sembra ormai virare verso nuovi paradigmi, una storia ormai impossibile da leggere con gli strumenti maturati fino ad allora. Il riflusso per Ferroni è il ritorno in Toscana, a Viareggio dove si trasferisce per tutto il 1972. Ferroni prende fiato dal laccio delle categorizzazioni artistiche, dalle letture vergate da battaglia politica e sviluppa rapporti con l’ambiente dello spettacolo e della canzone.

Un perfetto equilibrio tra la propria arte e una vivace piacevolezza per la semplicità del quotidiano che necessità di rapporti franchi e cordiali. Ai critici che frequenta solo superficialmente, preferisce i compagni di gioco, e il gioco è quello popolare e abile delle bocce.

Gianfranco Ferroni, Omaggio a Caravaggio 1991
Gianfranco Ferroni, Omaggio a Caravaggio 1991

Ferroni coltiva gelosamente la propria intimità per poter meglio approfondire e scavare in quella autobiografia artistica che è alla fine degli anni Ottanta la sua ricerca essenziale. Un percorso artistico che svela un’uniformità nella crescita che può essere letta anche attraverso i suoi principali riferimenti classici: Pollaiolo, Antonello Da Messina fino a Caravaggio e Vermeer.

E proprio nel 2001(anno della sua morte) una piccola esposizione presso la Pinacoteca di Brera rivelerà l’affinità verso quel mondo classico a cui da sempre si è rivolta nella propria originale interpretazione l’opera di Ferroni.

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