Firenze

A Pontedera, nella pancia di Dostoevskij

18 Febbraio 2015

Torno a Gramsci, a quando – giovanissimo critico teatrale – si chiedeva, di ogni spettacolo “da dove viene?” e “dove può andare?” per parlare della nuova regia di Roberto Bacci a Pontedera. Il lavoro si intitola 2×2=5, L’uomo dal sottosuolo. Si tratta di una drammaturgia originale che Stefano Geraci, docente universitario e da tempo dramaturg, ha sapientemente estratto dalle Memorie dal sottosuolo di Dostoevskij.

Allora, vedendo in scena il protagonista assoluto di questo lavoro, il potente e sfuggente Cacà Carvalho, mi ponevo le domande di Gramsci. Perché in ogni gesto di Cacà, in quel suo esporre violentemente e stupendamente il suo corpo obeso, nel suo percuotersi reiteratamente la pancia, nel suo sfigurare il volto in maschere grottesche, nel suo muovere le mani, leggevo la lunga storia del Centro di ricerca di Pontedera. Non a caso, eravamo nella sala dedicata a Ryszard Cieslak, lo storico – leggendario – attore di Jerzy Grotowski.

Inutile ricordare, qui, quanto l’influenza grotoskiana abbia reso Pontedera fulcro di una certa ricerca teatrale internazionale. Quel che mi piace sottolineare, però, è come il corpo “sacro”, ascetico, di Cieslak si ritrovi, per contrasto voluto, nel corpo offeso, addirittura umiliato di Carvalho. L’attore brasiliano non esita a mettersi in gioco visceralmente: trascina sé, e la maschera di sé, negli abissi non solo mentali di Dostoevskij. Tocca infatti anche gli estremi di una fisicità esposta e dichiaratamente subita, rendendola a suo modo sacra.

Attraversando l’ossessiva e incalzante narrazione della umiliazione e della speranza di riscatto – che vibra nel testo di Geraci – il regista Bacci ha spinto l’attore Carvalho alle estreme conseguenze, senza escludere il picco grottesco e amaro della classica “torta in faccia”, gesto emblematico in cui comico e tragico si toccano.

foto di Roberto Palermo
foto di Roberto Palermo

Al di là del racconto, ovvero della trama, quel che esplode è la vertigine scenica esposta in quel corpo, che da gesto e presenza si fa immediatamente timbrovoce, grido. Una voce capace di modulazioni che sono esse stesse stazioni drammatiche e drammaturgiche.

La scena è semplice: un modesto interno, tavolino e divano, chiuso da due pareti-gabbie di ferro, con una finestrella beckettiana, in alto, cui si giunge solo tramite una grande scala. Qui dentro, scava – talpa umana disperata – il protagonista, alla ricerca della memoria di sé, di qualche sprazzo di felicità, di qualche riscatto sociale e personale dall’ipocrisia e dalla frustrazione. È lui, con la sua pancia, con quel corpo invadente, a fare i conti con il passato. Chiama a testimone un (in-) volontario spettatore, preavvertito ma non edotto, con cui divedere un pezzo di formaggio e un po’ di vino, ma per il resto è solo, con le ciabatte sfatte, con un pijama sporco, enormi occhiali fuori moda e graffiati, con un vestito che evoca passate dignità. È un essere umano abietto, forse disgustoso, cattivo con sé e con gli altri. Rancoroso, questo è certo. Di un rancore lontano, covato, deprimente.

Ci siamo tutti, là in mezzo, nel marasma infernale di Dostoevskij.

La drammaturgia, dunque, è scavo nell’animo umano, è contraddittorio pesante tra ciò che siamo e ciò che vorremmo essere (o forse avremmo voluto): ma è, soprattutto, un altro tassello di un viaggio artistico ormai pluridecennale.

A Pontedera, tra mille contraddizioni, tra lotte politiche e estetiche senza esclusioni di colpi, hanno costruito una realtà: quel teatrone – freddo e elegante – è la cattedrale che segna il coronamento di tante lotte. La ricerca degli anni Settanta si è data una casa e ne va, giustamente, fiera. Roberto Bacci non rinuncia ai segni del passato, e li rilancia, di volta in volta, attraverso spettacoli che mantengono fede alla storia mitica, ma che cercano – con malcelato orgoglio – di agguantare il presente e forse il futuro.

Dunque “dove può andare” questo spettacolo?

Intanto vale chiedersi a chi si rivolge. Nel suo essere dichiaratamente “appartato”, per pochi spettatori (la sala piccola, anziché la magnifica sala grande), lo spettacolo si pone come un altro tassello che è un gesto di fiducia e di considerazione verso se stessi – ossia verso la storia e l’estetica di Pontedera – e verso tutti  noi spettatori.

Volenti o nolenti, non possiamo non costatare che il Centro diPontedera meriti quel che si è guadagnato sul campo, tanto da diventare una città famosa non solo per la Piaggio, ma anche – e per noi soprattutto – grazie al teatro. Adesso il futuro di questa “casa” è legato al Decreto ministeriale che ridisegna gli scenari nazionali: diventerà, o quanto meno ci prova, teatro “Nazionale” in una “fusione” con il Teatro della Pergola di Firenze.

Noi, quasi quasi, avremmo preferito che concorresse da solo: finalmente un “teatro nazionale di ricerca”, come auspicava Leo de Berardinis oltre venti anni fa. Invece ci sarà quella strana coppia: le rutilanti scenografie di Gabriele Lavia e il teatro povero di Bacci andranno d’accordo?

A Pontedera ci credono, e sono felici della prospettiva che si schiude: stanno sostenendo nuovi artisti, producono spettacoli di giovani e giovanissimi. C’è molto ancora da fare, sembrano dire.

Intanto ci accodiamo agli applausi sinceri che hanno accolto la straordinaria prova d’attore di Cacà Carvalho, e pensiamo, ancora una volta, a quanta strada ha fatto questo gruppo di persone: dal teatrino di via Manzoni, vicino alla Stazione, al nuovo Teatro Era fino ad un probabile Teatro Nazionale. Può piacere o meno, ma passati trenta anni la ricerca, nonostante tutto, continua.

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