Bruxelles
Tsipras forse fa sul serio, e adesso tocca a noi
Mentre si rimane ancora avviluppati nel gran galà della salita al Colle, mentre ci si lascia cullare dalla prosopopea mattarelliana, in slalom tra un “Evviva l’Italia” e titoloni di quotidiani –italiani ed esteri- a celebrare il dalemiano Renzi, mentre succede tutto questo dunque, fuori dallo steccato del giardino di casa qualcosa si muove.
Per carità, al di là dello steccato si muove sempre qualcosa. Lo steccato di Villa Italia è sempre piuttosto alto e spesso, stavolta però il trambusto là fuori nell’isolato chiamato Europa non pare aver voglia di affievolirsi, anzi. Il nuovo governo Tsipras, eletto dai greci per far fronte alla crisi schiacciasassi che sta piegando Atene e non solo, ha mosso i primi, pesanti e fragorosi passi.
Sarebbe doveroso ammettere che per ora ancora nulla di definitivo è stato concluso e siamo ancora sulla linea della concertazione, ma i passi restano fragorosi soprattutto perché all’indomani dell’ascesa al governo da parte di Syriza in molti avevano espresso diversi dubbi sull’efficacia del programma anti-austerità annunciato da Tsipras.
Restando in Italia, non si può ignorare come ai prevedibili cori di dissenso di matrice filo-austerity si sia aggiunta anche una buona parte della rappresentanza di quella sinistra un po’ così, tesa più che mai a minimizzare la portata dell’evento: “Tsipras non ce la farà”, “Tsipras non vuole pagare” messo dirimpetto a “Tsipras si piegherà ai voleri della Troika”, e così via.
Tsipras invece sale e -quantomeno nel brevissimo termine- sorprende tutti, pigiando moderatamente sull’acceleratore: stop alle privatizzazioni col Pireo bloccato sulla via della Cina, innalzamento del reddito minimo. Non solo, ma il nuovo ministro delle finanze Yanis Varoufakis, professore di economia greco-australiano, “Keynesiano con punte di marxismo” come si autodefinisce, durante l’incontro del 30 gennaio con il presidente dell’Eurogruppo Dijsselbloem presenta subito le intenzioni di Atene per far fronte alla crisi:
«Inutile che tornino qui gli uomini della Troika. Per noi i vecchi accordi sono saltati un minuto dopo il voto –così Varoufakis – Vogliamo trattare, ma lo faremo con la Ue. La Grecia non ha intenzione di lavorare con un Comitato –la Troika, appunto- che non ha ragione di esistere, lavoriamo a un nuovo accordo che vada bene a tutti»
Questo l’esordio che va ad aggiungersi all’assist offerto da Obama, dettosi disposto a sostenere la Grecia perché «ad un certo punto deve esserci una strategia di crescita -come ha detto il presidente USA alla Cnn- per permettere ai paesi che sono in profonda depressione di rimborsare i debiti ed eliminare parte dei loro deficit», augurandosi inoltre la permanenza di Atene nell’Euro attraverso un allentamento della cinghia e un compromesso globale.
In effetti anche il presidente della Commissione Europea Jean-Claude Juncker, in attesa dell’incontro con Tsipras in programma durante la prossima settimana, ha subito raccolto l’assist di Varoufakis dicendo che «bisogna trovare un’alternativa alla Troika», mentre il francese Matthieu Pigasse della banca d’affari Lazard -consulente dell’esecutivo greco sulla ristrutturazione del debito- ieri ha detto che bisognerebbe «cancellare metà del debito greco nei confronti dei creditori pubblici, cioè circa 100 miliardi», e che «la Grecia di oggi può essere il laboratorio per l’Europa di domani».
Basta dunque raccogliere qualche umore che rimbalza da una parete all’altra per capire che non si è più nel 2012, e neanche nel 2013. Angela Merkel nonostante la buona faccia nei confronti di Atene pare voglia evitare di incontrare Tsipras il prossimo 12 febbraio: lo riferisce il sito Bloomberg su segnalazione di un anonimo funzionario di governo tedesco.
In effetti una riforma della troika pare preoccupare non poco Berlino, almeno a giudicare dalle dichiarazioni del ministro del tesoro teutonico Wolfgang Schäuble, che ha definito molto difficile un possibile cambiamento del piano di aiuti, dichiarando che se fosse un politico greco non parlerebbe di taglio di debiti
Un muro che pare alzarsi proprio dove un altro muro crollò, in un vortice di corrente che mai come ora sta seriamente facendo scricchiolare l’austerity.
Scrive Paul Krugman:
«E’chiaro che la Grecia (o, per essere più precisi, il Governo che amministrò il paese tra il 2004 e il 2009), prese in prestito volontariamente ingenti somme di denaro. Tuttavia è anche vero che le banche tedesche e del resto del mondo concessero prestiti alla Grecia volontariamente. In condizioni normali ci si aspetterebbe che le due parti responsabili di tale errore di valutazione pagassero per questo. Ma le entità creditizie private sono stata, in gran misura, salvate e nel frattempo la Grecia dovrebbe continuare a pagare. Diciamoci la verità, nessuno crede che la Grecia possa pagare tutto ciò che deve. Ma allora perché non ammettere tale realtà e ridurre i pagamenti ad un livello che non imponga ai cittadini greci una eterna sofferenza? Forse l’obiettivo è che la Grecia serva da esempio per altri debitori? Se è così, come si concilia questo con i valori di quella che si presume sia una comunità di paesi democratici e sovrani?»
Ed è proprio questo il punto, il progetto europeo. D’altronde Varoufakis è stato il primo dopo trent’anni a spiegare come questo modello europeo sia stato preso da «un disegno nordamericano poi da noi adottato».
Questo probabilmente con riferimento al Movimento Europeo dei padri fondatori dell’Europa Monnet e Schuman e gli ingenti investimenti sul continente di Rockfeller, Ford e altri durante il Piano Marshall, fino ad arrivare alla metà degli anni Ottanta con il Piano Cockfield e la pesante influenza dell’ERT –letteralmente, “The European Round Table of Industrialists”– sulle politiche socio-economiche e sulle riforme infrastrutturali dell’Unione, TAV inclusa.
Al di là degli sguardi ampi utili comunque per comprendere alcune dinamiche distorte che pongono l’Europa di fronte al primo grande bivio della sua storia di unità – da ricercare alle radici, come spiegato qui da Giancarlo Villa-, Varoufakis in un’intervista alla rivista spagnola SinPermiso –raccolta da Marina Zanobio- ha così illustrato la visione sulla picchiata kamikaze di questa crisi:
«Credo sia tutta colpa di Esopo. La sua favola della formica e della cicala. E’ una buona favola, purtroppo però in Europa predomina la stranissima idea per cui tutte le cicale sono a Sud e tutte le formiche a Nord. Ma in realtà abbiamo formiche e cicale ovunque. Quanto accaduto prima della crisi – nella mia revisione della favola di Esopo – è che le cicale del Nord e le cicale del Sud, banchieri del Nord e banchieri del Sud – poniamo il caso – si allearono per creare una bolla, una bolla finanziaria che li ha enormemente arricchiti, permettendo loro di cantare e oziare al sole. Intanto le formiche del Nord e del Sud lavoravano in condizioni sempre più difficili, anche in tempi buoni: ottenere che i conti quadrassero nel 2003 e nel 2004 non è stato per niente facile per le formiche del Nord e del Sud. Successivamente, quando la bolla che le cicale del Nord e del Sud è scoppiata, le cicale del Nord e del Sud si sono messi d’accordo nel dare la colpa alle formiche del Nord e alle formiche del Sud. La forma migliore di farlo era mettere una contro le altre le formiche del Nord e le formiche del Sud, raccontando che nel Sud viveva solo cicale. Così l’Unione Europea ha iniziato a frammentarsi, il tedesco medio odia il greco medio, il greco medio odia il tedesco medio. Non manca molto che il tedesco medio odierà il tedesco medio, e il greco medio odierà il greco medio».
Le ragioni di politiche a tratti incomprensibili trovano la spiegazione nella memoria spolverata, nonostante discorsi come questi –Ford, Rockfeller, le grandi multinazionali- poi corrano sempre il rischio di finire nel pentolone del complottismo. A proposito di ciò, oltre alle solite supposizioni su Putin gran burattinaio credo sia d’obbligo segnalare -amche per una sorta di par condicio- le prime elucubrazioni su possibili legami tra Soros, Bill Gates e le elezioni in Europa –Grecia, Romania, Ucraina-, nel nome del “globalismo”. Sì, Soros sarebbe un globalista e a quanto pare nonostante la stessa Naomi Klein si sia dovuta arrendere c’è ancora qualcuno che vede nel globalismo una minaccia o ancor peggio una parola dal senso compiuto all’alba del 2015.
D’altronde non si può certo escludere che a fronte di un anno che si annuncia cruciale per l’Europa l’informazione non venga inevitabilmente usata come arma ancor più contundente rispetto al solito: l’Economist ad esempio è uscito con una copertina che non è piaciuta affatto ad Atene, così come alcune facili dietrologie possono al fine risultare piuttosto “conservatrici”, e dunque dall’effetto opposto – vedi Soros, Gates, gli ebrei e i globalismi.
Questo il teatro nuovo ma altamente dinamico in cui si trova la realtà fuori dal giardinetto di casa, questo ciò che attende Renzi all’incontro odierno con Tsipras parallelo a quello degli omologhi Padoan e Varoufakis sul ruolo dell’Italia nella questione. Palazzo Chigi si mostrerà sulla linea di Atene? Rimarrà fedele all’austerity? Tenterà l’italica parte del finto moderatore? Riuscirà a moderare davvero? Certo, al di là della diplomazia di rito, Renzi è atteso da una prova ben più impegnativa rispetto alle danze del Quirinale, anche perché diverse fazioni –seppur lievemente- si stanno contrapponendo, e occorre più che mai intuire dove soffia il vento: ne va anche di Villa Italia e del suo giardinetto.
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