Bologna
Quel “Gianni 7”, ingiustamente dimenticato
Lo amavano tutti. Con quel sorriso infinito e sincero, le mani gigantesche, l’andatura dinoccolata del mariuolo di campagna, imbarazzato alla vista della vita in città. Gianni Morandi era arrivato al successo a soli 17 anni, uno dei ragazzini terribili che, come Rita Pavone, avevano in poche settimane annientato l’Italia degli urlatori e degli smielati, catapultando in soffitta, con una sola trasmissione televisiva, Claudio Villa e compagnia cantante.
Tra il 1961 ed il 1969 Morandi vende quasi 8 milioni di dischi, in un paese in cui solo Modugno era riuscito a superare la soglia delle vendite milionarie, ed il suo successo travalica i confini nazionali. Alle sue spalle c’è un grande paroliere, Franco Migliacci (nella foto grande con Morandi e Caterina Caselli), ed i migliori compositori della musica italiana – e naturalmente un’imponente industria discografica, che compra i diritti di grandi hit internazionali e gliele fa interpretare in italiano, per un pubblico che, di ciò che succede al di là della Alpi, non sa nulla.
Poi arriva il 68, gli hippies, e cantanti famosi come Mina e Giorgio Gaber lasciano la tv, e diventano cantautori ed interpreti di brani di protesta. Arrivano al successo i mostri sacri: i Nomadi, Ivano Fossati, Fabrizio de André, Paolo Conte, Francesco Guccini. In una sala prove di Milano c’è un complessino beat, I Quelli, che dopo aver lavorato con De André diventa il simbolo del progressive europeo: la Premiata Forneria Marconi.
Quando esce “Gianni 6”, l’album che contiene i successi del 1969, Morandi è ancora l’idolo delle folle – ma è il canto del cigno. Lui per primo non ne può più della vita che fa, della sciocca moglie piccolo-borghese, dei film scemi fatti solo per vendere le canzoni, del cliché “poveri ma belli” che ha improntato tutto il neorealismo italiano, ma che ora è superato e stucchevole. Per la generazione del movimento studentesco, Morandi è il cantante dei “matusa”, dell’establishment democristiano, della reazione – proprio lui, figlio di un contadino comunista, che aveva obbligato il figlio ad imparare a memoria interi brani del Capitale di Carlo Marx.
Morandi e Migliacci sciolgono i propri vincoli contrattuali e fondano una nuova etichetta, ma per andarsene devono registrare un ultimo disco del vecchio contratto: un disco, che si chiamerà, senza fantasia, “Gianni 7”. Ma stavolta la musica è diversa. I testi di Migliacci sono sostenuti da Claudio Mattone, uno dei compositori più importanti della storia della musica italiana.
Mattone e Migliacci scrivono tantissimi nuovi brani a sfondo politico e sociale – e Morandi ne sceglie una decina, tra cui “Vado a lavorare”, che recupera la tematica operaia della parte finale della carriera di Luigi Tenco, e “Al bar si muore”, che diventa il singolo lanciato a Canzonissima. Il disco è un flop colossale, e segna la fine della carriera del ragazzone di Monghidoro e del suo matrimonio con Laura Efrikian. Dopo questo disco, per quasi un decennio, l’unico grande successo di Morandi sarà “Il mondo cambierà”, una delle canzoni scritte di getto da Migliacci e Mattone – un brano di speranza ingenua in un mondo cantautorale di pessimismo cosmico, di sarcasmo e rabbia.
Quel disco non è né carne né pesce, è a metà strada tra il vecchio ed il nuovo, ed è proprio per questo che, per me, insieme alla “Buona Novella” di de André, è il miglior album italiano del 1970, ma non è un capolavoro. Gli arrangiamenti sono quelli di sempre, non il folk rock degli eroi degli anni 70. Per questo motivo, ”Gianni 7” è un album dimenticato, che mi faceva piacere ricordare ai ragazzi della mia generazione, e presentare a coloro che hanno conosciuto Gianni Morandi dopo la sua gloriosa e meritata resurrezione.
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